View Full Version : Abu Mazen sfida Hamas: referendum per il futuro della palestina
zerothehero
30-05-2006, 20:23
Referendum per il futuro della Palestina» Dieci giorni di tempo per trovare un accordo sulla base di un documento sottoscritto dai detenuti in Israele delle diverse fazioni RAMALLAH - Se Hamas e Fatah non troveranno un accordo sul futuro dello Stato palestinese, il presidente dell'Anp Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha proposto di tenere un referendum entro 40 giorni per uscire dalla crisi politico-finanziaria che attanaglia Gaza e la Cisgiordania. L’accordo tra i due gruppi, che da giorni si scontrano per il controllo delle forze di sicurezza palestinesi, dovrà essere raggiunto sulla base di un documento stilato dai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane come piattaforma della conferenza per il dialogo nazionale iniziata giovedì mattina a Ramallah.
Abu Mazen (Afp)
DIECI GIORNI DI TEMPO - Il documento reso pubblico il 10 maggio e firmato da diversi dirigenti politici detenuti in Israele, fra cui il segretario di Fatah per la Cisgiordania Marwan Barghuti, il dirigente di Hamas Abdelkhaleq al-Natche, Abdelrahim Mallouh, numero due del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Bassam Al-Saadi, dirigente della Jihad islamica, e Moustapha Badarneh, del Fronte democratico per la liberazione della Palestina (Fdlp), propone fra l'altro di limitare ai Territori occupati la resistenza contro Israele (quindi la fine degli attentati sul territorio israeliano), la formazione di un governo di unità nazionale e la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Abu Mazen ha «concesso» dieci giorni di tempo a Fatah e Hamas per trovare un accordo, viceversa sarà indetto il referendum.
25 maggio 2006
zerothehero
30-05-2006, 20:23
«Hamas e Jihad ai negoziati con Abu Mazen»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — Lo chiamano «Napoleone», per la piccola statura e le grandi ambizioni. E perché dalla sua cella è riuscito a rimanere il capopopolo più influente. Che ha avuto successo dove Abu Mazen ha per ora fallito: convincere Hamas (o almeno una parte del movimento) ad accettare uno Stato palestinese nei confini del 1967. Non la tregua di anni che il premier Ismail Haniyeh offre nell'intervista pubblicata ieri dal quotidiano Haaretz, ma il piano per un accordo definitivo che stabilisca dei confini certi con Israele.
Marwan Barghouti ha imbarcato nel suo progetto gli altri leader nella prigione di Hadarim. Quelli che incontra ogni giorno nelle due ore d'aria. Ha discusso per settimane, tra riunioni di gruppo e incontri faccia a faccia. Per riuscire ad avere, lui del Fatah, i loro nomi e le loro firme. «Ho presentato una bozza che abbiamo analizzato insieme — spiega Barghouti, 46 anni —, mi sono state fatte delle proposte che ho inserito e alla fine il testo è stato approvato all'unanimità».
Diciotto punti per evitare la guerra civile e aprire le trattative con Israele. «È il primo documento sottoscritto da Hamas e dalla Jihad islamica che accetta la nascita di uno Stato palestinese nei territori del 1967. E' molto importante perché unisce le varie fazioni per un obiettivo che ha una legittimità internazionale».
Barghouti, condannato nel maggio 2004 a cinque ergastoli più quarant'anni con l'accusa di essere coinvolto negli omicidi di cinque israeliani, passa le giornate divorando i libri che la Croce Rossa gli passa, tre quotidiani israeliani (e quelli palestinesi quando arrivano). In queste settimane, ha letto Boomerang dei giornalisti israeliani Raviv Drucker e Ofer Shelah (un saggio-denuncia contro la strategia di Ariel Sharon durante la seconda intifada), Dividing the land di Ari Shavit (sulle sfide che aspettano il sionismo dopo il ritiro da Gaza) e Il mondo di Sofia, bestseller internazionale dell'ex professore di filosofia norvegese Jostein Gardner.
Lo Shin Bet lo considera «l'architetto del terrore» della rivolta scoppiata nel settembre 2000 e in carcere è stato sottoposto a un regime che solo pochi mesi fa gli ha concesso di ricevere le visite regolari della moglie Fadwa e di vedere la figlia Ruba per la prima volta dall'arresto nell'aprile 2002.
Ha dettato le risposte alle domande, durante un incontro nel parlatorio della prigione con l'avvocato Elias Sabbagh.
Il suo documento lancia un appello all'unità nazionale. Per ora il governo di Hamas ha giudicato il progetto interessante, senza accettarlo.
«Nel testo dichiariamo che l'Olp è l'unico rappresentante legittimo del popolo palestinese nelle trattative. Hamas e la Jihad islamica devono entrare nell'organizzazione, che condurrà i negoziati assieme al presidente Abu Mazen. Un eventuale accordo verrà votato dalla gente con un referendum».
La Jihad islamica non ha sottoscritto la tregua del febbraio 2005 e ha continuato gli attentati kamikaze nelle città israeliane.
«I leader della Jihad nelle carceri vogliono che gli attacchi contro l'occupazione vengano limitati alla Cisgiordania».
Hamas e Fatah si stanno fronteggiando a colpi di Kalashnikov per le strade di Gaza.
«Bisogna impedire agli uomini delle forze di sicurezza di entrare nella sfida per il potere tra le fazioni. Il governo e il presidente devono lavorare insieme. Il mio testo prevede garanzie molto importanti in un futuro Stato palestinese: il pluralismo politico, il rispetto dei diritti delle donne, la libertà di stampa».
Com'è riuscito a convincere Abdel Khalek Natche, uno dei capi di Hamas, ad accettare uno Stato palestinese entro i confini del 1967.
«E' uno dei fondatori del movimento, molto rispettato dagli altri leader. Crede nell'unità nazionale».
Khaled Meshaal ha respinto da Damasco la possibilità che Hamas possa riconoscere Israele. Ha invitato il Fatah «a unirsi sotto la bandiera della jihad per liberare tutta la Palestina».
«Hamas controlla il governo e ha la maggioranza in Parlamento. Ma si deve rendere conto che nessuno in questo momento può guidare da solo il popolo palestinese. Deve formare una coalizione più ampia, basata sul mio programma per mobilitare l'appoggio arabo e internazionale verso una causa giusta. Resta il diritto del nostro popolo di resistere all'occupazione».
Come giudica il governo del nuovo premier Ehud Olmert? Amir Peretz, ministro della Difesa laburista, vuole che il dialogo con Abu Mazen venga riaperto.
«Gli israeliani non sono pronti a condurre trattative serie, che stabiliscano un calendario per il ritiro dai territori conquistati nel 1967 e da Gerusalemme Est. Parlano di negoziati per gettare polvere negli occhi e per arrivare a imporre una soluzione unilaterale che ignori la controparte palestinese. Parlano di negoziati e fanno vivere quattro milioni di palestinesi in gabbia ».
Con il ritiro unilaterale da Gaza, Sharon ha dimostrato coraggio, anche quello di cambiare idea. È pronto a riconoscerlo?
«Fin dall'annuncio, sono stato sicuro che avrebbe portato a termine l'operazione. E' stata una decisione giusta, un piccolo passo verso la fine dell'occupazione. Sharon ha capito che il controllo su Gaza stava diventando troppo costoso e che Israele non era riuscita a spezzare la volontà dei palestinesi».
Davide Frattini
zerothehero
30-05-2006, 20:24
Amici stretti non da sempre, d’accordo non sempre
Tra gli Stati Uniti ed Israele vi è quella che molti studiosi han definito la “relazione speciale”, nonostante non vi sia un trattato militare che suggelli formalmente questa alleanza. Essa si basa su affinità di religiose, politiche, sociali e da interessi comuni nel campo della sicurezza. Israele rappresenta per gli americani uno dei perni della stabilità in Medio Oriente. Questa relazione è così stretta e forte che negli stessi Stati Uniti è nato ultimamente un forte dibattito sul peso della “lobby ebraica” nelle decisioni di politica estera degli Stati Uniti. Esso è scaturito dalla pubblicazione di un lavoro scritto da due politologi, John Mearsheimer e Stephen Walt, che si sono espressi in maniera molto critica nei confronti di questo legame e dell’influenza che esso ha nel processo di decisionmaking statunitense in politica estera.
Gli USA sono stati i primi, nel 1948, a riconoscere de facto Israele. La forte partnership però non è stata immediata, poiché tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 gli USA evitarono di legarsi in modo netto ad Israele. Ciò nasceva dalla preoccupazione di regalare il mondo arabo all’Unione Sovietica. Questo rapporto inizia a crescere sotto la presidenza Eisenhower e si rafforza nel corso degli anni. Gli Stati Uniti han così preso, dopo la Guerra dei Sei Giorni, il posto della Francia come principale alleato di Israele.
L’America è attualmente il primo partner commerciale di Israele, che tra l’altro è anche il paese che riceve più aiuti economici da Washington ed ha lo status di “major – non NATO ally”. Nonostante ciò su molti dossier le posizioni tra i due alleati sono spesso divergenti, come ad esempio sul problema degli insediamenti, giudicati dagli USA un freno al processo di pace oppure all’annessione del Golan, mai riconosciuta da Washington.
Le questioni principali trattate nell’incontro bilaterale tenuto nella capitale statunitense il 23 e il 24 maggio, il primo da quando Olmert è divenuto premier, sono state il programma nucleare iraniano, la crescente instabilità che regna nei territori e nella leadership palestinese ed il piano unilaterale israeliano di ritiro dalla Cisgiordania denominato “piano di convergenza”. Altri temi molto importanti che han caratterizzato recentemente l’agenda del rapporto tra i due alleati e che in più di un’occasione hanno visto le opinioni dei due paesi divergere fortemente sono rimasti relegati in secondo piano. Tra essi vanno ricordati la questione concernente la vendita di tecnologia militare alla Cina o le frizioni legate all’accusa americana di scarsa applicazione nel difendere i diritti sulla proprietà intellettuale dei prodotti americani da parte di Gerusalemme.
Le questioni fondamentali
Olmert ha espresso a Bush le principali preoccupazioni israeliane sull’Iran ed il governo di Hamas e ha enumerato le linee guida per il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania. Allo stato attuale esse sono più un insieme di idee che non un vero e proprio progetto organico. Il ritiro è funzionale all’obiettivo di dotare Israele di confini sicuri e che salvaguardino l’ebraicità del paese. Questa sfida è la ragion d’essere di Kadima ed ogni scelta del governo e del suo capo saranno legati al raggiungimento di questo obiettivo.
Il leader statunitense ha accolto con favore il piano di disimpegno unilaterale propostogli da Olmert, sottolineando la sua importanza per arrivare alla nascita di uno Stato Palestinese. Questa è stata una mossa a sorpresa del Presidente, poiché nei giorni antecedenti l’incontro era trapelata in più di un’occasione l’irritazione americana per l’unilateralismo insito in questo progetto. Esso, sul modello di quanto già avvenuto per il ritiro da Gaza, viene giustificato dagli israeliani con l’incapacità della controparte di essere un interlocutore credibile. Questo elemento è visto dagli Stati Uniti come l’ennesimo strappo alla credibilità della Road Map. Essa prevede che ogni decisione concernente la situazione nei Territori venga concordata tra israeliani e palestinesi.
Il sostegno offerto da Bush ad Olmert va analizzato sulla base di altre considerazioni. Innanzitutto il credito offerto dagli americani serve ad Olmert per rafforzarsi dal punto di vista interno. Il risultato sotto le aspettative ottenuto da Kadima alle elezioni ne ha indebolito il peso politico ed il fatto che Olmert guidi una coalizione molto eterogenea possono minare la stabilità del governo ed indebolirlo. Inoltre Olmert deve affrancare la sua figura da quella carismatica del suo predecessore, Ariel Sharon, ed il sostegno americano può servire in tal senso. Un Olmert rafforzato dalla Casa Bianca può avere l’autorità di prendere scelte difficili senza rischiare di spaccare il governo, utilizzando il suo peso politico per ridurre la riottosità dei suoi alleati su determinate questioni, come ad esempio la contrarietà dello Shas a ritirarsi dai Territori. Inoltre l’apertura data da Bush potrà servire per spingere Olmert a creare condizioni più favorevoli alle esigenze statunitensi nei negoziati di pace, ad esempio sulla questione già richiamata del carattere unilaterale del ritiro. Gli USA vogliono eliminare, o quanto meno minimizzare, questo elemento non solo perché non conforme alle disposizioni della Road Map, ma anche a causa di altre esigenze.
Washington non vuole apparire un arbitro troppo sbilanciato in favore di Israele, accusa che spesso ricorre nel mondo arabo per ciò che riguarda il suo ruolo nei negoziati. Inoltre vuole ridare un ruolo attivo e non di comprimario nei negoziati al presidente dell’ANP, Abu Mazen, debole e sostanzialmente isolato dopo la vittoria di Hamas.
Uscendo dal teatro del conflitto israelo-palestinese, Olmert ha ribadito la sua totale contrarietà ad un Iran dotato dell’arma atomica. Se l’obiettivo è simile a quello americano, i modi per raggiungerlo appaiono differenti. Israele nel corso degli ultimi mesi ha spinto in più di un’occasione affinché vi sia un’azione militare contro le centrali nucleari di Teheran. Gli USA invece hanno recentemente ribadito la contrarietà al nucleare dell’Iran, ma l’opzione militare è uscita momentaneamente dall’agenda delle azioni possibili. Nelle ultime dichiarazioni Bush sostiene la necessità di risolvere il problema insieme alla comunità internazionale ed in maniera pacifica, utilizzando come strumenti un mix di incentivi e la minaccia di sanzioni al paese.
Gli Stati Uniti hanno un atteggiamento molto più cauto rispetto ad Israele su questo argomento, poiché vi è una chiara differenza nel percepire la minaccia da parte dei due attori. La differenza di percezione nasce da una pluralità di fattori: la limitata profondità strategica caratterizzante Israele, l’esistenza degli Shahab III, i missili iraniani capaci in teoria di colpire Israele e la propaganda anti-sionista del presidente iraniano Ahmadinejad. Quest’ultimo fattore ha una importanza più forte di quanto possa apparire in un primo momento, poichè va analizzato tenendo conto della particolare memoria storica che impregna l’identità nazionale israeliana, legata all’Olocausto e alla guerra del 1948/49.
Questi elementi, nei calcoli strategici americani, non sono presenti. Il nucleare dell’Iran non rappresenta una minaccia diretta contro il proprio territorio, ma è bensì un elemento di potenziale instabilità del quadro regionale. L’Iran, tramite l’acquisizione della capacità di produrre energia nucleare, sia per fini civili o militari, ha come obiettivo quello di accrescere il proprio status regionale. Gli Stati Uniti vogliono evitare che l’Iran aumenti il proprio peso in Medio Oriente o che quanto meno l’entità di questa crescita sia contenuta per evitare che i propri interessi ne vengano pregiudicati. Questo è uno degli imperativi strategici statunitensi sin dal 1979 e la politica del cosiddetto “Dual Conteinment” nata negli anni ’90 per contenere l’Iran e l’Iraq ne è un esempio. Nonostante ciò gli Stati Uniti non sono però disposti ad accollarsi il peso di un’azione militare, anche se hanno ribadito che saranno al fianco di Israele in caso di attacco.
Gli interessi americani nell’area sono molteplici, come ad esempio garantire la sicurezza delle rotte e degli approvvigionamenti energetici, favorire la democratizzazione dei paesi dell’area come freno al terrorismo ed in funzione dei propri disegni di sicurezza, evitare la corsa alla proliferazione nucleare e stabilizzare l’Iraq. Quest’ultimo è uno degli argomenti più spinosi dell’intera partita. Gli iraniani si muovono in Iraq non solo per ostacolare gli Stati Uniti ma soprattutto per evitare che si affermi il modello sciita iracheno, differente ed in parte antitetico con lo sciismo politico di stampo khomeinista che regna in Iran da 27 anni, poichè viene visto come una grave minaccia alla stabilità del regime.
Conclusioni
Il legame tra Stati Uniti ed Israele resta forte, nonostante le differenze più o meno marcate esistenti su molte questioni. Il principale obiettivo di entrambi i paesi è lo stesso, stabilizzare il Medio Oriente in modo da frenare le minacce ai propri interessi. Per gli Stati Uniti Israele rappresenta un perno fondamentale nell’intera equazione di sicurezza dell’area, poiché è un paese democratico ed è un alleato dal forte peso militare. Per Israele invece Washington è, in quanto principale protagonista dei negoziati di pace, una garanzia per le proprie esigenze geopolitiche ed è un vero e proprio garante per l’esistenza del paese. Per questi motivi, pur essendovi differenze anche forti su molti argomenti, esse tendono ad essere minimazzate e non intaccheranno in maniera significativa le relazioni tra i due paesi.
zerothehero
30-05-2006, 21:54
Palestina: Hamas e Fatah al bivio
Il 24 maggio Abu Mazen ha convocato tutti i partiti palestinesi a Ramallah, per raggiungere un accordo che ponga fine al conflitto interno e salvi l'ANP dalla guerra civile. Dietro la proposta compromissoria di un dialogo nazionale, la Presidenza, sostenuta da Fatah, ha lanciato un ultimatum ad Hamas affinché accetti la piattaforma politica dell'OLP.
Giovanni Faleg
Equilibri.net (30 maggio 2006)
L'esplosiva rivalità fra Hamas e Fatah, dopo tre mesi di scontri fra i militanti delle due fazioni, ha raggiunto il suo apice con la disputa sul tema della sicurezza nella Striscia di Gaza. A seguito del dispiegamento della nuova milizia speciale alle dirette dipendenze di Hamas, il duopolio della forza legittima così creatosi ha reso evidente la necessità di un dialogo fra le parti, con lo spettro della guerra civile arrivato a livelli mai raggiunti nella storia dell'ANP. Un dialogo diventato una priorità, oltre che una necessità, all'indomani della visita del premier israeliano Ehud Olmert a Washington durante la quale il presidente Bush ha dichiarato di appoggiare la strategia unilaterale di Israele. Queste due motivazioni, aggiunte alla grave crisi finanziaria, sono alla base dell'iniziativa di Abu Mazen per trovare un compromesso duraturo fra le forze centrifughe di Hamas e Fatah. In caso di mancato accordo, il popolo potrebbe essere chiamato ad esprimersi tramite un referendum.Dopo poco più di un decennio di sovranità, l'ANP si ritrova schiacciata da lotte intestine e da un dualismo di potere che rischia di rimettere in discussione la legittimità stessa dell'OLP.
Anarchia e crisi umanitaria: la Palestina nell'ingovernabilità
La crisi umanitaria e la catastrofe economica che da mesi soffocano la Palestina sono una conseguenza dell'impasse istituzionale successiva all'insediamento del governo Hamas. La detronizzazione di Fatah è invece all'origine dell'inattesa resistenza dei propri militanti contro il nuovo governo incaricato. Durante la campagna elettorale il fattore ritenuto più destabilizzante per le sorti della politica palestinese veniva individuato nell'appartenenza di Hamas al terrorismo di matrice fondamentalista e nel rifiuto dell'ufficio politico di deporre le armi dopo le elezioni. Sono stati invece i gruppi armati di Fatah ed altre organizzazioni affiliate, come le brigate dei martiri di Al Aqsa, a sfruttare il caos esistente nella Striscia di Gaza ed in Cisgiordania per fomentare la reazione contro la nuova leadership.
L'astio politico fra Hamas e Fatah si è tradotto a livello territoriale in una nebulosa di scontri a fuoco che si sono aggiunti ai raid israeliani in risposta agli attacchi terroristici ed al malcontento della popolazione per le inefficienze dell'amministrazione pubblica. Ad esasperare le tensioni esistenti ci ha pensato il blocco economico imposto da Israele e dai paesi occidentali (Stati Uniti ed UE).
Il governo Hamas si è rivolto ai paesi arabi, all'Iran ed alla Russia, che hanno accordato lo stanziamento di fondi per soccorrere l'ANP nonostante il veto degli Stati Uniti. Ma il trasferimento delle liquidità è stato in diversi casi reso impossibile dall'ostruzionismo delle banche; sotto la pressione del governo americano molte di esse hanno chiuso le proprie filiali e rifiutato i trasferimenti.
Recentemente, l'ondata di violenza ha coinvolto anche i servizi di intelligence, segnale che entrambe le fazioni cercano di eliminare gli uomini chiave dei rivali, come mostra il tentativo di assassinare il capo dei servizi segreti Generale Tarek Abu Rajab. Lo stesso Abu Mazen non verrebbe risparmiato: secondo l'intelligence palestinese, una serie di attentati sarebbero stati già preparati per uccidere il Presidente Se questi dovesse scomparire dalla scena politica, il presidente del PLC (Consiglio Legislativo Palestinese) Aziz Dweik otterrebbe la Presidenza ad interim per sessanta giorni, al termine dei quali le elezioni potrebbero porre fine alla coabitazione e dare ad Hamas entrambe le branche dell'esecutivo.
La piattaforma dell'OLP e la proposta di Barghouti
Alla riunione di Ramallah, Abu Mazen ha parlato di tre priorità per rilanciare il dialogo nazionale. La prima, di carattere economico, riguarda l'individuazione di un metodo appropriato per rimediare all'embargo ed alle sanzioni a carico del governo Hamas. La seconda porta sul conflitto di prerogative fra la Presidenza ed il Governo, quindi la rivalità fra Hamas e Fatah in senso stretto. Infine, lo studio di una possibile riforma dell'OLP, affinché l'organizzazione diventi rappresentativa di tutte le forze politiche presenti nel panorama politico palestinese.
Le tre priorità sono tradotte in un documento di diciotto punti elaborato dai prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane ed i cui firmatari sono Marwan Barghouti, leader di Fatah in Cisgiordania, e Abdel-Khaliq al-Natsheh, figura di rilievo di Hamas. Nel testo si prevede la creazione di uno Stato palestinese indipendente nei Territori Occupati con Gerusalemme Est come capitale, obbiettivo da conseguire mediante il negoziato con Israele ed a condizione che quest'ultimo si ritiri entro le frontiere del 1967. La bozza affronta il tema della politica interna attraverso la creazione di un governo di unità nazionale, di cui facciano parte tutti i partiti palestinesi, fra cui Fatah ed Hamas, ed una ristrutturazione dell'OLP che includa Hamas e Jihad islamica. Si parla infine del diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1948 e della liberazione dei detenuti palestinesi in Israele.
Dal documento si possono trarre diverse indicazioni. In primo luogo, esso rappresenta una proposta concreta ad Hamas per ricucire il dialogo e rendere governabile l'ANP. Dai punti salienti del testo si può notare come il movimento islamico, nell'accettare il governo di unità nazionale, sia chiamato a riconoscere Israele ed accettare la legittimazione dell'OLP come organo rappresentante della popolazione palestinese.
Il testo, di per sé, non è molto innovativo, eccezione fatta per il punto riguardante la ristrutturazione dell'OLP. La sua importanza è più che altro simbolica, essendo stato elaborato nelle prigioni israeliane, da uomini di Fatah ma sottoscritto da non pochi esponenti di Hamas appartenenti alla corrente più pragmatica. La proposta non viene quindi direttamente dalla Presidenza, ma da Barghouti; non dalla vecchia e corrotta leadership di Fatah, ma dalle nuove generazioni più vicine alle sofferenze ed alle rivendicazioni del popolo palestinese.
L'effetto sperato è quello di accentuare la divisione interna ad Hamas fra i difensori della linea dura, in testa ai quali c'è il capo dell'ufficio politico in esilio a Damasco, Khaled Meshaal, ed i pragmatici che ritengono necessario un compromesso per la causa nazionale. I primi infatti, come ribadito dal portavoce del movimento islamico Sami Zuhri, rifiuteranno ad oltranza l'imposizione di condizioni preliminari e la pressione esercitata dalla Presidenza.
Abu Mazen, nel presentare al premier Haniyah l'ultimatum, ha dato tempo dieci giorni per sottoscrivere il documento, al termine dei quali, in caso di mancato accordo, sarà indetto un referendum per dare al popolo la parola definitiva. Una misura energica, un monito severo ed una decisione netta sul futuro prossimo dell'Autorità.
Fatah ed Hamas, due realtà parallele
Occorre chiedersi a questo punto quanto siano realistiche le ipotesi di un accordo e quali sarebbero le alternative se il dialogo dovesse fallire. Vi sono tre possibili sbocchi per il dialogo al quale Hamas e Fatah sono faticosamente convenuti, non potendo ignorare l'aggravarsi della crisi. Nel primo caso, Abu Mazen potrebbe indire nuove elezioni, sulla base di un accordo fra i partiti, per rinnovare contemporaneamente la Presidenza ed il PLC. Ipotesi che lo stesso Abu Mazen ha definito accettabile ma che non sembra poter essere condivisa facilmente da Hamas.
La seconda soluzione è fortemente sponsorizzata dal settore privato e consiste in un gabinetto di tecnocrati dal quale siano esclusi ministri di Hamas e Fatah. Anche se appare difficile che il Consiglio Legislativo possa approvare tale mozione, da essa trarrebbero profitto le finanze, la sicurezza ed il sistema sanitario, senza contare il segnale di fiducia dato alla Comunità Internazionale per la questione dei fondi.
Infine, una coalizione per l'unità nazionale è la strada battuta da Fatah, nell'intento di lavorare insieme alla corrente pragmatica di Hamas nel rispetto degli accordi di Oslo e del negoziato con Israele. Indubbiamente, rispetto alle due precedenti, quest'ultima ipotesi è la sola che in parte risolverebbe la crisi alla base, vale a dire facendo prevalere all'interno di Hamas la corrente più moderata ed escludere dal governo i radicali.
Così facendo, la politica interna dell'ANP potrebbe essere caratterizzata da un'intesa fra la componente popolare di Fatah, le nuove generazioni di cui sono portavoce Barghouti e Dahlan, ed i pragmatici di Hamas, disposti a lavorare su un terreno comune sotto l'egida dell'OLP. L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina diverrebbe allora la nuova chiave di volta e base del futuro stato palestinese, in un momento storico nel quale l'ANP si trova spalle al muro di fronte al proprio fallimento.
In mancanza di un accordo, lo scontro diretto getterebbe il paese nella guerra civile, varcando quella linea rossa che, fino ad ora, nessuno ha avuto l'interesse di varcare, o almeno non completamente. Molti analisti hanno scongiurato l'ipotesi del conflitto fratricida, sottolineando l'evidenza del danno reciproco se l'eventualità dovesse avverarsi. Ciononostante, l'impressione è che l'ANP si stia preparando al peggio, prendendo le dovute precauzioni nel caso il dialogo dovesse fallire. Persino da Israele è stata paventata l'ipotesi di fornire armi a Fatah qualora lo scontro con Hamas scoppiasse su ampia scala.
Secondo altri analisti, un eventuale referendum sui negoziati di pace con Israele, sulla base della piattaforma proposta da Barghouti e dagli altri prigionieri palestinesi, andrebbe quasi sicuramente ad appannaggio di Abu Mazen. Se infatti Hamas gode di un ampio consenso popolare (tuttavia diminuito a causa della crisi finanziaria), è anche vero che la maggior parte dei palestinesi resta favorevole al negoziato; soprattutto se da questo dipendesse la capacità dell'Autorità di pagare gli stipendi, con le tasche dei funzionari pubblici vuote da due mesi.
Conclusioni
L'unica certezza rimane il fallimento del cosiddetto "cart before the horse approach": la costruzione di istituzioni democratiche in Palestina prima dell'indipendenza della nazione non ha portato ai risultati sperati. Dalla riunione di Ramallah emerge chiaramente che solo in seno all'OLP Fatah ed Hamas potranno trovare un accordo. Nel 1994 Nabil Shaath commentava il processo di Oslo dicendo che, se questo avesse funzionato, Gaza sarebbe diventata come Singapore, ma che in caso di insuccesso avrebbe potuto assomigliare alla Somalia. Diversi fattori, dalla divisione delle forze di sicurezza interne alle fratture istituzionali, passando per il rischio della guerra fratricida, rendono oggi il panorama palestinese molto simile a quello del vicino Iraq.
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