IpseDixit
21-05-2006, 12:29
NEW YORK — Il giocatore-cecchino inquadra sullo schermo del computer il suo bersaglio, ne controlla i movimenti, esplora con lo zoom l’espressione del suo volto, poi spara. La vittima cade in un lago di sangue, i suoi ultimi rantoli sono spaventosi, più realistici di quelli ascoltati in molti film. Sono i videogame di ultima generazione: sempre più perfezionati, sempre più spietati, fanno discutere psicologi ed educatori per la loro carica di violenza e il loro realismo.
«Super Columbine Massacre» non appartiene a questa categoria; è un videogioco basato su una tecnologia a due dimensioni degli anni '80, con una grafica rudimentale, da cartone animato: piccoli pupazzi avanzano in un edificio, attraversano corridoi, cucine, aule. Quando sparano la vittima cade, ma la scena non è cruenta. Eppure il gioco creato da Denny Ledonne, un ragazzo di 24 anni che vive in una cittadina del Colorado, sta facendo correre un brivido lungo la schiena di molta gente perché, a differenza degli altri videogame che raccontano storie di fantasia, questo è basato su un evento reale: il massacro nella scuola di Columbine, sempre nel Colorado.
Il 20 aprile del 1999 Eric Harris e Dylan Klebold, due studenti, entrarono nella scuola di Littleton, un sobborgo di Denver, impugnando armi semiautomatiche e cominciarono a sparare su tutti quelli che incontravano: uccisero dodici ragazzi, un insegnante e ferirono altre 20 persone; poi si suicidarono. Il più sanguinoso massacro della storia scolastica americana, descritto nel documentario «Bowling for Columbine » col quale Michael Moore ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2002, e che ha ispirato vari libri.
I familiari delle vittime sono comprensibilmente furiosi. L’autore del videogioco, la cui identità è stata rivelata dal Washington Post, aveva scelto di restare nell’anonimato, avendo ricevuto via Internet fiumi di insulti e anche minacce di morte. Ma c’è anche chi sostiene che questo videogioco fa parte di un nuovo tipo di normalità, legata alle nuove tecnologie, che va accettata: «È un pugno nello stomaco perché vuole esserlo, ma nel panorama mediatico i videogiochi hanno ormai un ruolo analogo a quello dei film o della musica: non si vede quindi perché un fatto raccontato in libri, film e documentari non possa ispirare anche un computer game», spiega sul Rocky Mountain News, un quotidiano di Denver, Ian Bogost, docente del Georgia Institute of Technology.
Ma David Walsch, direttore dell’Istituto per i media e la famiglia, non è d’accordo: «È un modello psicologico diverso: i giocatori non sono osservatori passivi, gli si chiede di agire. Si mettono nei panni di Eric e Dylan, entrano nella scuola, scovano i compagni, li abbattono. È un gioco che glorifica comportamenti antisociali, violenti. Non è illegale, ma è inaccettabile sul piano etico». È pericoloso? Walsch sostiene che può amplificare la rabbia già latente in chi si appassiona a questi giochi.Altri invitano, invece, a non drammatizzare: abbiamo tutti giocato agli indiani e ai cowboy, senza per questo diventare dei criminali. Controreplica: il computer è uno strumento diverso in cui l’interattività suggestiona e ha una forte carica didattica intrinseca.
Mentre gli esperti discutono e i familiari delle vittime esprimono rabbia e disgusto, Denny Ledonne si dice dispiaciuto, ma non pentito. Ha creato il gioco non per guadagnarci (è disponibile gratuitamente in rete), ma perché si sentiva attratto dalle figure dei due autori del massacro. Denny li definisce «intelligenti e molto sensibili, due ragazzi solitari, disadattati, emarginati dai loro compagni». E aggiunge: «Li capisco perché anch’io, a scuola, ho subito prevaricazioni».
Parole inaccettabili per molti, ma non per una vittima del massacro: Richard Castaldo, un ragazzo colpito da quattro proiettili e rimasto paralizzato, non è affatto scandalizzato. Anzi, confessa di aver giocato a «Columbine massacre»: «È una cosa strana, lo so, ma c’è qualcosa che ho apprezzato: la possibilità di rivivere la tragedia da una prospettiva diversa, quella del carnefice».
Oltre al gioco vero e proprio, del resto, «Super Columbine Massacre» offre una galleria di immagini dei protagonisti e ricostruisce la vicenda usando il materiale reso pubblico dalla polizia. Una vicenda che divide e lascia l’amaro in bocca. Ma che è nulla rispetto al lancio di «Border Patrol», videogioco razzista che mira esplicitamente ad alimentare l’ostilità degli americani nei confronti degli immigrati clandestini: il giocatore spara e abbatte i messicani (qualificati come «nazionalisti» o «spacciatori di droga») che attraversano illegalmente la frontiera. Bersaglio preferito le donne incinte, perché il figlio, se nascerà negli Usa, diventerà cittadino americano. Tom Metzger, capo della Resistenza Ariana (area Ku Kux Klan), gongola: ha messo il gioco sul suo sito e sostiene che sono già milioni quelli che l’hanno «scaricato» sui loro computer.
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/05_Maggio/21/videogiochi.shtml
«Super Columbine Massacre» non appartiene a questa categoria; è un videogioco basato su una tecnologia a due dimensioni degli anni '80, con una grafica rudimentale, da cartone animato: piccoli pupazzi avanzano in un edificio, attraversano corridoi, cucine, aule. Quando sparano la vittima cade, ma la scena non è cruenta. Eppure il gioco creato da Denny Ledonne, un ragazzo di 24 anni che vive in una cittadina del Colorado, sta facendo correre un brivido lungo la schiena di molta gente perché, a differenza degli altri videogame che raccontano storie di fantasia, questo è basato su un evento reale: il massacro nella scuola di Columbine, sempre nel Colorado.
Il 20 aprile del 1999 Eric Harris e Dylan Klebold, due studenti, entrarono nella scuola di Littleton, un sobborgo di Denver, impugnando armi semiautomatiche e cominciarono a sparare su tutti quelli che incontravano: uccisero dodici ragazzi, un insegnante e ferirono altre 20 persone; poi si suicidarono. Il più sanguinoso massacro della storia scolastica americana, descritto nel documentario «Bowling for Columbine » col quale Michael Moore ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2002, e che ha ispirato vari libri.
I familiari delle vittime sono comprensibilmente furiosi. L’autore del videogioco, la cui identità è stata rivelata dal Washington Post, aveva scelto di restare nell’anonimato, avendo ricevuto via Internet fiumi di insulti e anche minacce di morte. Ma c’è anche chi sostiene che questo videogioco fa parte di un nuovo tipo di normalità, legata alle nuove tecnologie, che va accettata: «È un pugno nello stomaco perché vuole esserlo, ma nel panorama mediatico i videogiochi hanno ormai un ruolo analogo a quello dei film o della musica: non si vede quindi perché un fatto raccontato in libri, film e documentari non possa ispirare anche un computer game», spiega sul Rocky Mountain News, un quotidiano di Denver, Ian Bogost, docente del Georgia Institute of Technology.
Ma David Walsch, direttore dell’Istituto per i media e la famiglia, non è d’accordo: «È un modello psicologico diverso: i giocatori non sono osservatori passivi, gli si chiede di agire. Si mettono nei panni di Eric e Dylan, entrano nella scuola, scovano i compagni, li abbattono. È un gioco che glorifica comportamenti antisociali, violenti. Non è illegale, ma è inaccettabile sul piano etico». È pericoloso? Walsch sostiene che può amplificare la rabbia già latente in chi si appassiona a questi giochi.Altri invitano, invece, a non drammatizzare: abbiamo tutti giocato agli indiani e ai cowboy, senza per questo diventare dei criminali. Controreplica: il computer è uno strumento diverso in cui l’interattività suggestiona e ha una forte carica didattica intrinseca.
Mentre gli esperti discutono e i familiari delle vittime esprimono rabbia e disgusto, Denny Ledonne si dice dispiaciuto, ma non pentito. Ha creato il gioco non per guadagnarci (è disponibile gratuitamente in rete), ma perché si sentiva attratto dalle figure dei due autori del massacro. Denny li definisce «intelligenti e molto sensibili, due ragazzi solitari, disadattati, emarginati dai loro compagni». E aggiunge: «Li capisco perché anch’io, a scuola, ho subito prevaricazioni».
Parole inaccettabili per molti, ma non per una vittima del massacro: Richard Castaldo, un ragazzo colpito da quattro proiettili e rimasto paralizzato, non è affatto scandalizzato. Anzi, confessa di aver giocato a «Columbine massacre»: «È una cosa strana, lo so, ma c’è qualcosa che ho apprezzato: la possibilità di rivivere la tragedia da una prospettiva diversa, quella del carnefice».
Oltre al gioco vero e proprio, del resto, «Super Columbine Massacre» offre una galleria di immagini dei protagonisti e ricostruisce la vicenda usando il materiale reso pubblico dalla polizia. Una vicenda che divide e lascia l’amaro in bocca. Ma che è nulla rispetto al lancio di «Border Patrol», videogioco razzista che mira esplicitamente ad alimentare l’ostilità degli americani nei confronti degli immigrati clandestini: il giocatore spara e abbatte i messicani (qualificati come «nazionalisti» o «spacciatori di droga») che attraversano illegalmente la frontiera. Bersaglio preferito le donne incinte, perché il figlio, se nascerà negli Usa, diventerà cittadino americano. Tom Metzger, capo della Resistenza Ariana (area Ku Kux Klan), gongola: ha messo il gioco sul suo sito e sostiene che sono già milioni quelli che l’hanno «scaricato» sui loro computer.
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/05_Maggio/21/videogiochi.shtml