maddero
16-05-2006, 09:57
da ww.corriere.it
E Silvio disse: composti, come a un funerale L'irritazione del premier, spalla per un giorno di Giorgio «il comunista»: non mi ha citato S
Silvio Berlusconi durante l'intervento di Napolitano (Emblema)
«Agli ordini». Silvio Berlusconi ci ha provato, a sdrammatizzare tutto con una battuta, quando «sir George» Napolitano è uscito da Montecitorio. Ma certo il cerimoniale, che ieri gli assegnava una parte non solo di spalla ma quasi di valletto, sia pure di lusso, deve essergli pesato come un macigno: il destino cinico e baro aveva assegnato proprio a lui (a lui!) il compito di accompagnare al Quirinale il primo «comunista» mai eletto a capo dello Stato.
Una beffa. Che il Cavaliere ha vissuto con la faccia di un colitico vegetariano obbligato a deglutire bucatini con la pajata. Terreo, le labbra serrate, gli occhi socchiusi, la pelle della fronte tirata per la tensione con qualche rischio per le delicate suture estetiche, è entrato nell'aula tra gli ultimi e, prima di andarsi a piazzare al banco del presidente del Consiglio che per qualche giorno ancora gli spetta, è passato un attimo davanti alle prime file dei suoi di Forza Italia per suggerire: «Mi raccomando. Composti. Come fosse un funerale».
E per trequarti d'ora è rimasto lì, inchiodato al suo posto. Senza unirsi al battimani corale dei deputati e dei senatori all'ingresso in assemblea del successore di Carlo Azeglio Ciampi. Senza concedergli un cenno di saluto. Senza mai voltarsi una volta, neppure una, mentre quello faceva il suo discorso d'insediamento. Senza mai porsi il problema dello sgarbo istituzionale che gli sarebbe stato poi rinfacciato da un po' tutta la sinistra, a partire da Pierluigi Bersani: «Cafonissimo».
C'è chi dirà, tra i suoi, che il broncio era dovuto al fatto che Napolitano non si era ricordato di lui nei saluti iniziali. «Vogliamo credere che sia stata solo una vista», sibilerà Renato Schifani.
«Discorso deludente», rincarerà Elio Vito, «inoltre poteva essere rivolto un saluto al presidente Berlusconi e all'opera preziosa di governo che è stata assicurata in questi anni difficili dal punto di vista interno e internazionale». Ma lo sanno anche loro che il punto non è questo. Ciampi fece lo stesso: nessun saluto al premier D'Alema, nessuno al suo governo, nessuno ai ministri. Non era nella prassi. Fine.
A rendere fastidiosissimo quel passaggio istituzionale per il Cavaliere, che per anni ha coltivato l'immagine del «vincente» e odia perdere, era in realtà lo scherzo che gli ha tirato la sorte. Dannazione, proprio a lui! Lui che già nel discorso della «discesa in campo» non aveva citato manco una volta i temi che avrebbe poi cavalcato (mai le tasse e l'impegno di tagliarle, mai il rapporto con l'America, mai la necessità di ponti e strade e tangenziali) preferendo attaccare frontalmente i comunisti e «gli orfani e i nostalgici del comunismo» e le sinistre che «dicono di essere diventate liberal-democratiche, ma non è vero perché i loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro comportamenti sono gli stessi».
Sono anni che, infischiandosene dei consigli di chi gli diceva di lasciar perdere (come Giuliano Ferrara che sbadigliò lamentando un'«irrecusabile noia intellettuale») batte su questi tasti. È andato a inginocchiarsi in un santuario mariano prima della finale della Coppa dei Campioni contro lo Steaua Bucarest pregando la Madonna di dargli una mano a «battere i comunisti». Ha mandato una lettera ai parroci romani, in quel 1994 in cui aveva come avversario nel collegio non solo il «rosso» (?) Luigi Spaventa ma anche il democristiano Alberto Michelini, invitandoli a non votarlo «per non far vincere Spaventa e non far trionfare il comunismo». Ha accusato la nostra Carta Costituzionale, ieri esaltata da Napolitano, di risentire «di influenze sovietiche». Ha stabilito che «il 90% dei giornalisti italiani milita sotto le bandiere del fronte comunista o paracomunista». Ha spiegato che il referendum sul maggioritario, appoggiato tra gli altri anche da Antonio Martino e Gianfranco Fini, era «comunista».
E poi ha incoraggiato gli italiani dicendo che «anche se Gesù ci ha mandato in terra i comunisti, ce la possiamo fare». E distribuito kit elettorali dove si suggeriva di bombardare gli elettori spiegando che «il comunismo al potere ha sempre e dovunque prodotto: 1) miseria 2) terrore 3) morte».
E bollato come «cattocomunista» una figlia di Maria, sia pure assai combattiva, come Rosy Bindi che gli rispose: «Ma se non facevo nemmeno la spesa alla Coop, tanto ero anticomunista!». E indottrinato certe pasionarie come la bolzanina Michaela Biancofiore al punto che quella se n'è uscita spiegando che l'Alto Adige (l'Alto Adige di Magnago e Durnwalder e degli schützen!) è «pieno di comunisti» o anche se certo «non con la falce e il martello, ma con quello che Berlusconi intende per comunismo: l'omertà, l'occupazione della società, la paura di essere tagliati fuori. Come nelle Regioni rosse e in Alto Adige dove dei dc di sinistra applicano le regole Urss». Sud Sovietic Volkspartei...
Per non dire delle innumerevoli volte in cui lui, il premier azzurro, ha messo in guardia contro «i diessini o meglio i comunisti» che «sono gli stessi che hanno plaudito alla più feroce e disumana impresa della storia dell'uomo e dobbiamo perciò, quando li incontriamo, ricordarci che sono stati complici, politicamente e moralmente, di quanto è accaduto sotto i regimi comunisti».
Mettetevi al posto suo: cosa avreste fatto, ieri, costretti ad assistere al trionfo di un «comunista», sia pure british e non propriamente trinariciuto? Lui si è piegato facendo tutto il possibile per dimostrare quanto gli pesasse. Trequarti d'ora a dargli ostentatamente le spalle. A tamburellare con le dita sul tavolo come chi è molto annoiato. A leggere e piegare, rileggere e ripiegare, il fascicoletto del cerimoniale. A sospirare vistosamente per sottolineare la sua insofferenza. A rifiutarsi di applaudire se non quando proprio non poteva esimersi, come sul cordoglio per i militari morti nelle missioni in Afghanistan o in Iraq o sul ringraziamento alle forze dell'ordine o sul plauso al modo in cui Ciampi si è conquistato nei suoi sette anni la stima e l'affetto degli italiani. A lanciare occhiate incendiarie, se non proprio di odio, agli alleati come Pier Ferdinando Casini che gli sembravano troppo generosi nello spellarsi le mani per quel «comunista».
Per andarsene infine, per primo, così che tutti lo vedessero, mentre tutti (quasi tutti) erano in piedi come richiesto, al di là delle polemiche, dei torti e delle ragioni, dal fair- play.
Brutta giornata. Proprio una brutta giornata. Peggiore perfino di quella, che gli sarà tornata in mente in questi momenti di scandali calcistici, in cui un gruppo di tifosi avversari gli srotolò davanti il più infame degli striscioni: «Milanista ladro comunista».
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Gian Antonio Stella
16 maggio 2006
Casini, segnale a Silvio «Visto? Andava votato Non è un capo partito» Dal leader udc diciotto applausi a Napolitano «Come criticare un ex pci che cita De Gasperi?»
Quando Pier Ferdinando Casini sale nel suo nuovo ufficio sui tetti di Montecitorio, è già successo tutto e non è ancora successo nulla, Giorgio Napolitano ha giurato e parlato da presidente della Repubblica ma dall'opposizione nessuno si è ancora espresso, Silvio Berlusconi è andato via con fretta non si sa se dettata dal cerimoniale o dall'irritazione. Casini però non è pentito di aver quasi fatto da grande elettore di Napolitano; non ha potuto votarlo e farlo votare, ma ora nessuno gli può impedire di dirne bene.
«Questo snodo istituzionale era ed è fondamentale per la maturazione del centrodestra, per fare emergere un centrodestra diverso — ragiona Casini —. È un'opportunità per distinguerci da una sinistra che per cinque anni ha recitato la sua litania contro la dittatura della maggioranza e ora vuole instaurarla. Ed è un'opportunità per aprire un dialogo con un capo dello Stato che si è posto come garante di tutti. Noi abbiamo sventato un'operazione di appropriazione indebita del Colle, dove la sinistra voleva portare un capo partito. Ora non ci deve sfuggire che Napolitano ha scelto fin da subito un'impostazione diversa, tracciando il profilo del Quirinale come istituzione super partes». Non votarlo è stato un errore. Ma non è troppo tardi, dice Casini, «per chiudere il libro dei sogni e confrontarci con la realtà; che è diversa da quella che sognavamo. Anch'io avrei preferito vedere sul Colle un uomo del centrodestra. Ma le elezioni le hanno vinte gli altri». Le prime reazioni sono negative: discorso di parte, dicono. «Io invece penso che non fosse giusto attendere da un uomo di sinistra parole diverse da quelle di tutta una vita. Sarebbe stata una conversione trasformistica. Francamente, preferisco le garanzie che ci ha offerto. Più che una metamorfosi, dobbiamo chiedergli coerenza con quanto ha detto oggi. Napolitano ha le caratteristiche per interpretare al meglio il ruolo di garante anche dell'opposizione. Non ne dubitavo, perché lo conosco, lo stimo, e so che sia noi sia lui possiamo superare la prova».
La «prova», per Casini, è la tenuta del bipolarismo e insieme il superamento della contrapposizione frontale. «Fino a oggi noi eravamo sul piede di guerra. Ora dobbiamo avere l'intelligenza politica di cambiare registro». Sempre sospettato di lavorare all'ipotesi del «grande centro», Casini dice invece di puntare più che mai sul bipolarismo, come già fece nel '94 quando si smarcò da Martinazzoli e Segni, nel nome del maggioritario e dell'alternanza. Ma l'ex presidente della Camera vede il bipolarismo come lo vede Napolitano: non come la contrapposizione tra due schieramenti definiti dal sostegno o dall'avversione a Berlusconi; non come «una guerra all'arma bianca tra due estremismi. È tempo di costruire il bipolarismo maturo, che per consolidarsi non ha bisogno di clave».
«Discorso retorico» dice il capogruppo di Forza Italia Elio Vito. Casini legge l'agenzia sul computer, tra la foto con Ciampi e quella con Kohl, e dissente. «A me è sembrato un discorso per nulla retorico. Molto sobrio. Alla Napolitano: stile anglosassone». A Casini è piaciuto anche perché è stato un discorso politico, e da politico. Porto senza enfasi, mai a chiamare gli applausi, dagli applausi anzi quasi infastidito. Un discorso da uomo delle istituzioni, inevitabilmente apprezzato da chi ha appena lasciato la presidenza di Montecitorio, dopo aver nominato alla guida della Fondazione proprio Napolitano, certo per stima personale ma forse anche presagendone l'avvenire. «E Cesa, che fa Cesa?» si informa Casini consultando il computer. Niente, le agenzie battono ancora i temi del discorso. «Molto buono il passaggio sulle famiglie. Bene il riferimento ai rapporti con l'Europa e con gli Stati Uniti. Ma la parte che ho apprezzato di più è quella sulla cristianità come radice comune dell'Europa. E poi la risposta al Pontefice, con l'elogio del dialogo tra Stato e Chiesa: un'apertura al mondo cattolico italiano». Il centrodestra non ha applaudito invece l'elogio della Resistenza. «È vero. Sono parole che a una parte del mio schieramento non piacciono. Però ormai il valore fondativo della Resistenza fa parte della coscienza comune; così come ne fanno parte le sue ombre. Io stesso cinque anni fa ho citato l'uno e le altre, nel mio primo discorso da presidente della Camera. Napolitano ha parlato di "aberrazioni". Per un uomo che viene dal Pci, non è poco».
Alla parola «aberrazioni», Casini ha applaudito. L'ha fatto altre 17 volte, su 31 applausi complessivi: per le forze armate, per Ciampi, per i caduti, per Israele; ma pure per la citazione degli italiani all'estero, accolta dai banchi della destra quasi come una provocazione. Un applauso l'ha lanciato lui, quando Napolitano ha promesso di essere il garante «non solo della maggioranza che mi ha eletto». «Più che il passaggio sul dialogo, che era dovuto — dice Casini — è importante quello sulle riforme istituzionali; in particolare, la distinzione tra i principi fondamentali della Carta, che hanno una loro rigidità, e la parte sull'ordinamento, che può essere modificata». Napolitano ha ripreso i punti che aveva anticipato al Corriere nel giorno dell'elezione: il referendum di fine giugno, comunque vada, non scioglie il nodo delle riforme; vanno rafforzate sia la stabilità del governo, quindi i poteri del premier, sia le garanzie dell'opposizione. «Ecco, nella scorsa legislatura questo è sempre stato un cavallo di battaglia del centrosinistra, che ora se l'è rimangiato tentando di imporci D'Alema. Leggo esercizi di doppiopesismo a firma di Manzella. Napolitano si muove su una linea diversa».
Arriva l'agenzia con la dichiarazione di Cesa: «Bene Napolitano». «E bravo Cesa — sorride Casini —. Certo, non tutto il discorso di insediamento mi è piaciuto. La parte sulla questione sociale, su lavoratori garantiti e non garantiti, mi è parsa un po' superata. Del resto Napolitano si è proposto come è, mica poteva travestirsi da qualcun altro». Così com'è, a Casini non dispiace. Il leader dell'Udc è già sulla via del Quirinale quando indugia ancora un attimo: «E poi, come si fa a criticare un ex comunista che nel discorso di insediamento cita De Nicola, Antonio Segni e De Gasperi?».
Aldo Cazzullo
16 maggio 2006
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ho una domanda per chi ha votato a destra: meglio l'atteggiamento dell'UDC (e da quel che ho letto di AN) o l'atteggiamento di Forza Italia?
E Silvio disse: composti, come a un funerale L'irritazione del premier, spalla per un giorno di Giorgio «il comunista»: non mi ha citato S
Silvio Berlusconi durante l'intervento di Napolitano (Emblema)
«Agli ordini». Silvio Berlusconi ci ha provato, a sdrammatizzare tutto con una battuta, quando «sir George» Napolitano è uscito da Montecitorio. Ma certo il cerimoniale, che ieri gli assegnava una parte non solo di spalla ma quasi di valletto, sia pure di lusso, deve essergli pesato come un macigno: il destino cinico e baro aveva assegnato proprio a lui (a lui!) il compito di accompagnare al Quirinale il primo «comunista» mai eletto a capo dello Stato.
Una beffa. Che il Cavaliere ha vissuto con la faccia di un colitico vegetariano obbligato a deglutire bucatini con la pajata. Terreo, le labbra serrate, gli occhi socchiusi, la pelle della fronte tirata per la tensione con qualche rischio per le delicate suture estetiche, è entrato nell'aula tra gli ultimi e, prima di andarsi a piazzare al banco del presidente del Consiglio che per qualche giorno ancora gli spetta, è passato un attimo davanti alle prime file dei suoi di Forza Italia per suggerire: «Mi raccomando. Composti. Come fosse un funerale».
E per trequarti d'ora è rimasto lì, inchiodato al suo posto. Senza unirsi al battimani corale dei deputati e dei senatori all'ingresso in assemblea del successore di Carlo Azeglio Ciampi. Senza concedergli un cenno di saluto. Senza mai voltarsi una volta, neppure una, mentre quello faceva il suo discorso d'insediamento. Senza mai porsi il problema dello sgarbo istituzionale che gli sarebbe stato poi rinfacciato da un po' tutta la sinistra, a partire da Pierluigi Bersani: «Cafonissimo».
C'è chi dirà, tra i suoi, che il broncio era dovuto al fatto che Napolitano non si era ricordato di lui nei saluti iniziali. «Vogliamo credere che sia stata solo una vista», sibilerà Renato Schifani.
«Discorso deludente», rincarerà Elio Vito, «inoltre poteva essere rivolto un saluto al presidente Berlusconi e all'opera preziosa di governo che è stata assicurata in questi anni difficili dal punto di vista interno e internazionale». Ma lo sanno anche loro che il punto non è questo. Ciampi fece lo stesso: nessun saluto al premier D'Alema, nessuno al suo governo, nessuno ai ministri. Non era nella prassi. Fine.
A rendere fastidiosissimo quel passaggio istituzionale per il Cavaliere, che per anni ha coltivato l'immagine del «vincente» e odia perdere, era in realtà lo scherzo che gli ha tirato la sorte. Dannazione, proprio a lui! Lui che già nel discorso della «discesa in campo» non aveva citato manco una volta i temi che avrebbe poi cavalcato (mai le tasse e l'impegno di tagliarle, mai il rapporto con l'America, mai la necessità di ponti e strade e tangenziali) preferendo attaccare frontalmente i comunisti e «gli orfani e i nostalgici del comunismo» e le sinistre che «dicono di essere diventate liberal-democratiche, ma non è vero perché i loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro comportamenti sono gli stessi».
Sono anni che, infischiandosene dei consigli di chi gli diceva di lasciar perdere (come Giuliano Ferrara che sbadigliò lamentando un'«irrecusabile noia intellettuale») batte su questi tasti. È andato a inginocchiarsi in un santuario mariano prima della finale della Coppa dei Campioni contro lo Steaua Bucarest pregando la Madonna di dargli una mano a «battere i comunisti». Ha mandato una lettera ai parroci romani, in quel 1994 in cui aveva come avversario nel collegio non solo il «rosso» (?) Luigi Spaventa ma anche il democristiano Alberto Michelini, invitandoli a non votarlo «per non far vincere Spaventa e non far trionfare il comunismo». Ha accusato la nostra Carta Costituzionale, ieri esaltata da Napolitano, di risentire «di influenze sovietiche». Ha stabilito che «il 90% dei giornalisti italiani milita sotto le bandiere del fronte comunista o paracomunista». Ha spiegato che il referendum sul maggioritario, appoggiato tra gli altri anche da Antonio Martino e Gianfranco Fini, era «comunista».
E poi ha incoraggiato gli italiani dicendo che «anche se Gesù ci ha mandato in terra i comunisti, ce la possiamo fare». E distribuito kit elettorali dove si suggeriva di bombardare gli elettori spiegando che «il comunismo al potere ha sempre e dovunque prodotto: 1) miseria 2) terrore 3) morte».
E bollato come «cattocomunista» una figlia di Maria, sia pure assai combattiva, come Rosy Bindi che gli rispose: «Ma se non facevo nemmeno la spesa alla Coop, tanto ero anticomunista!». E indottrinato certe pasionarie come la bolzanina Michaela Biancofiore al punto che quella se n'è uscita spiegando che l'Alto Adige (l'Alto Adige di Magnago e Durnwalder e degli schützen!) è «pieno di comunisti» o anche se certo «non con la falce e il martello, ma con quello che Berlusconi intende per comunismo: l'omertà, l'occupazione della società, la paura di essere tagliati fuori. Come nelle Regioni rosse e in Alto Adige dove dei dc di sinistra applicano le regole Urss». Sud Sovietic Volkspartei...
Per non dire delle innumerevoli volte in cui lui, il premier azzurro, ha messo in guardia contro «i diessini o meglio i comunisti» che «sono gli stessi che hanno plaudito alla più feroce e disumana impresa della storia dell'uomo e dobbiamo perciò, quando li incontriamo, ricordarci che sono stati complici, politicamente e moralmente, di quanto è accaduto sotto i regimi comunisti».
Mettetevi al posto suo: cosa avreste fatto, ieri, costretti ad assistere al trionfo di un «comunista», sia pure british e non propriamente trinariciuto? Lui si è piegato facendo tutto il possibile per dimostrare quanto gli pesasse. Trequarti d'ora a dargli ostentatamente le spalle. A tamburellare con le dita sul tavolo come chi è molto annoiato. A leggere e piegare, rileggere e ripiegare, il fascicoletto del cerimoniale. A sospirare vistosamente per sottolineare la sua insofferenza. A rifiutarsi di applaudire se non quando proprio non poteva esimersi, come sul cordoglio per i militari morti nelle missioni in Afghanistan o in Iraq o sul ringraziamento alle forze dell'ordine o sul plauso al modo in cui Ciampi si è conquistato nei suoi sette anni la stima e l'affetto degli italiani. A lanciare occhiate incendiarie, se non proprio di odio, agli alleati come Pier Ferdinando Casini che gli sembravano troppo generosi nello spellarsi le mani per quel «comunista».
Per andarsene infine, per primo, così che tutti lo vedessero, mentre tutti (quasi tutti) erano in piedi come richiesto, al di là delle polemiche, dei torti e delle ragioni, dal fair- play.
Brutta giornata. Proprio una brutta giornata. Peggiore perfino di quella, che gli sarà tornata in mente in questi momenti di scandali calcistici, in cui un gruppo di tifosi avversari gli srotolò davanti il più infame degli striscioni: «Milanista ladro comunista».
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Gian Antonio Stella
16 maggio 2006
Casini, segnale a Silvio «Visto? Andava votato Non è un capo partito» Dal leader udc diciotto applausi a Napolitano «Come criticare un ex pci che cita De Gasperi?»
Quando Pier Ferdinando Casini sale nel suo nuovo ufficio sui tetti di Montecitorio, è già successo tutto e non è ancora successo nulla, Giorgio Napolitano ha giurato e parlato da presidente della Repubblica ma dall'opposizione nessuno si è ancora espresso, Silvio Berlusconi è andato via con fretta non si sa se dettata dal cerimoniale o dall'irritazione. Casini però non è pentito di aver quasi fatto da grande elettore di Napolitano; non ha potuto votarlo e farlo votare, ma ora nessuno gli può impedire di dirne bene.
«Questo snodo istituzionale era ed è fondamentale per la maturazione del centrodestra, per fare emergere un centrodestra diverso — ragiona Casini —. È un'opportunità per distinguerci da una sinistra che per cinque anni ha recitato la sua litania contro la dittatura della maggioranza e ora vuole instaurarla. Ed è un'opportunità per aprire un dialogo con un capo dello Stato che si è posto come garante di tutti. Noi abbiamo sventato un'operazione di appropriazione indebita del Colle, dove la sinistra voleva portare un capo partito. Ora non ci deve sfuggire che Napolitano ha scelto fin da subito un'impostazione diversa, tracciando il profilo del Quirinale come istituzione super partes». Non votarlo è stato un errore. Ma non è troppo tardi, dice Casini, «per chiudere il libro dei sogni e confrontarci con la realtà; che è diversa da quella che sognavamo. Anch'io avrei preferito vedere sul Colle un uomo del centrodestra. Ma le elezioni le hanno vinte gli altri». Le prime reazioni sono negative: discorso di parte, dicono. «Io invece penso che non fosse giusto attendere da un uomo di sinistra parole diverse da quelle di tutta una vita. Sarebbe stata una conversione trasformistica. Francamente, preferisco le garanzie che ci ha offerto. Più che una metamorfosi, dobbiamo chiedergli coerenza con quanto ha detto oggi. Napolitano ha le caratteristiche per interpretare al meglio il ruolo di garante anche dell'opposizione. Non ne dubitavo, perché lo conosco, lo stimo, e so che sia noi sia lui possiamo superare la prova».
La «prova», per Casini, è la tenuta del bipolarismo e insieme il superamento della contrapposizione frontale. «Fino a oggi noi eravamo sul piede di guerra. Ora dobbiamo avere l'intelligenza politica di cambiare registro». Sempre sospettato di lavorare all'ipotesi del «grande centro», Casini dice invece di puntare più che mai sul bipolarismo, come già fece nel '94 quando si smarcò da Martinazzoli e Segni, nel nome del maggioritario e dell'alternanza. Ma l'ex presidente della Camera vede il bipolarismo come lo vede Napolitano: non come la contrapposizione tra due schieramenti definiti dal sostegno o dall'avversione a Berlusconi; non come «una guerra all'arma bianca tra due estremismi. È tempo di costruire il bipolarismo maturo, che per consolidarsi non ha bisogno di clave».
«Discorso retorico» dice il capogruppo di Forza Italia Elio Vito. Casini legge l'agenzia sul computer, tra la foto con Ciampi e quella con Kohl, e dissente. «A me è sembrato un discorso per nulla retorico. Molto sobrio. Alla Napolitano: stile anglosassone». A Casini è piaciuto anche perché è stato un discorso politico, e da politico. Porto senza enfasi, mai a chiamare gli applausi, dagli applausi anzi quasi infastidito. Un discorso da uomo delle istituzioni, inevitabilmente apprezzato da chi ha appena lasciato la presidenza di Montecitorio, dopo aver nominato alla guida della Fondazione proprio Napolitano, certo per stima personale ma forse anche presagendone l'avvenire. «E Cesa, che fa Cesa?» si informa Casini consultando il computer. Niente, le agenzie battono ancora i temi del discorso. «Molto buono il passaggio sulle famiglie. Bene il riferimento ai rapporti con l'Europa e con gli Stati Uniti. Ma la parte che ho apprezzato di più è quella sulla cristianità come radice comune dell'Europa. E poi la risposta al Pontefice, con l'elogio del dialogo tra Stato e Chiesa: un'apertura al mondo cattolico italiano». Il centrodestra non ha applaudito invece l'elogio della Resistenza. «È vero. Sono parole che a una parte del mio schieramento non piacciono. Però ormai il valore fondativo della Resistenza fa parte della coscienza comune; così come ne fanno parte le sue ombre. Io stesso cinque anni fa ho citato l'uno e le altre, nel mio primo discorso da presidente della Camera. Napolitano ha parlato di "aberrazioni". Per un uomo che viene dal Pci, non è poco».
Alla parola «aberrazioni», Casini ha applaudito. L'ha fatto altre 17 volte, su 31 applausi complessivi: per le forze armate, per Ciampi, per i caduti, per Israele; ma pure per la citazione degli italiani all'estero, accolta dai banchi della destra quasi come una provocazione. Un applauso l'ha lanciato lui, quando Napolitano ha promesso di essere il garante «non solo della maggioranza che mi ha eletto». «Più che il passaggio sul dialogo, che era dovuto — dice Casini — è importante quello sulle riforme istituzionali; in particolare, la distinzione tra i principi fondamentali della Carta, che hanno una loro rigidità, e la parte sull'ordinamento, che può essere modificata». Napolitano ha ripreso i punti che aveva anticipato al Corriere nel giorno dell'elezione: il referendum di fine giugno, comunque vada, non scioglie il nodo delle riforme; vanno rafforzate sia la stabilità del governo, quindi i poteri del premier, sia le garanzie dell'opposizione. «Ecco, nella scorsa legislatura questo è sempre stato un cavallo di battaglia del centrosinistra, che ora se l'è rimangiato tentando di imporci D'Alema. Leggo esercizi di doppiopesismo a firma di Manzella. Napolitano si muove su una linea diversa».
Arriva l'agenzia con la dichiarazione di Cesa: «Bene Napolitano». «E bravo Cesa — sorride Casini —. Certo, non tutto il discorso di insediamento mi è piaciuto. La parte sulla questione sociale, su lavoratori garantiti e non garantiti, mi è parsa un po' superata. Del resto Napolitano si è proposto come è, mica poteva travestirsi da qualcun altro». Così com'è, a Casini non dispiace. Il leader dell'Udc è già sulla via del Quirinale quando indugia ancora un attimo: «E poi, come si fa a criticare un ex comunista che nel discorso di insediamento cita De Nicola, Antonio Segni e De Gasperi?».
Aldo Cazzullo
16 maggio 2006
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ho una domanda per chi ha votato a destra: meglio l'atteggiamento dell'UDC (e da quel che ho letto di AN) o l'atteggiamento di Forza Italia?