Ewigen
13-04-2006, 11:40
PROCESSO AI GIORNALI
FUORI DAL MONDO, S'ILLUDONO DI CREARLO LORO
Giorgio Ferrari
Che cosa ci aspettiamo, in ultima analisi, dai giornali? Notizie, informazioni, commenti, indicazioni politiche, battaglie civili, quella indispensabile funzione di controllo della moralità pubblica, di sorveglianza sul bene comune, di salvaguardia dei confini di ciò che chiamiamo impropriamente società civile?
Sì, ci aspettiamo tutto questo dal Quarto potere, ben sapendo (noi giornalisti per primi) che un'obiettività al quadrato, più utopistica che teorica, non esiste: il solo atto di compiere delle scelte è di per sé una potenziale distorsione prospettica, probabilmente inevitabile, se non addirittura necessaria.
Verrebbe da dire tuttavia che tutte queste componenti vengono vanificate se ne manca una in particolare, che tutte le riassume e le anima: il contatto con la realtà. Questo in fondo era (e dovrebbe rimanere) il motore primo che spinge a raccontare qualcosa che si è visto, sperimentato, compreso. Lo faceva Erodoto nelle sue Storie, lo facevano i logografi nella Magna Grecia, hanno continuato a farlo per secoli cronisti e analisti europei, storici e memorialisti di ogni fatta, ciascuno con la propria personale inclinazione (o distorsione prospettica, anche) ma inevitabilmente mantenendo separati quei due mondi contigui eppure diversissimi che sono la realtà dalla fantasia, la nudità dei fatti dalla letteratura, che di per sé è e non può che essere un sublime inganno attuato con la piena complicità del lettore.
Ecco, qui sta il punto. Oggi viviamo in una terra di mezzo, in cui i giornali credono troppo a se stessi e la realtà tende a plasmarsi attraverso l'autoabbaglio che i media provvedono a fabbricare. È superfluo rammentare la grande allucinazione collettiva americana, che due anni fa dipingeva una società totalmente avversa a Bush, alla gue rra in Iraq e totalmente aperta alle sperimentazioni sociali più ardite, allucinazione supportata da tutte le grandi testate (ad eccezione del Wall Street Journal) e poi smentita da un elettorato che metteva l'Iraq al quarto posto nelle emergenze e il disordine etico al primo, bocciando Kerry e facendo trionfare il pur immeritevole George W.Bush. Stessa cosa accadeva in Francia, dove da Le Monde a Libération a tutta l'ala radical chic della sinistra "al caviale" si piangeva compunti sui disastri italiani ma nessuno, ripetiamo nessuno si accorgeva che Jean-Marie Le Pen stava annientando il governo socialista e insidiava alle politiche il centrodestra di Chirac. Anche sponsorizzare in modo faraonico cause perse come referendum che non arrivano al 10 per cento del quorum o movimenti che non ottengono neanche uno scranno al Senato è una imbarazzante fuga dal buon senso.
Abbagli, distorsioni prospettiche, strabismi, errori di parallasse: troppi, ormai, anche in casa nostra. I media, cioè, sembrano non saper più cogliere la realtà delle cose, ma solo evocarla: purgata, modificata, abbagliata dai propri - legittimi, è ovvio - pregiudizi. Il Paese reale, insomma, non c'è, non viene descritto, non viene capito. Schopenhauer coniò un termine per definire tale attitudine: Wunschvorstellung, come dire volontà di rappresentazione, o anche il suo opposto, rappresentazione di un volere. Entrambe le cose però, lontanissime dalla realtà. Errore in cui si sta cadendo, nel mondo dell'informazione, troppo di frequente ormai. Forse bisogna ripensare il giornalismo. Sempre che si possa ancora definirlo tale. [Avvenire]
FUORI DAL MONDO, S'ILLUDONO DI CREARLO LORO
Giorgio Ferrari
Che cosa ci aspettiamo, in ultima analisi, dai giornali? Notizie, informazioni, commenti, indicazioni politiche, battaglie civili, quella indispensabile funzione di controllo della moralità pubblica, di sorveglianza sul bene comune, di salvaguardia dei confini di ciò che chiamiamo impropriamente società civile?
Sì, ci aspettiamo tutto questo dal Quarto potere, ben sapendo (noi giornalisti per primi) che un'obiettività al quadrato, più utopistica che teorica, non esiste: il solo atto di compiere delle scelte è di per sé una potenziale distorsione prospettica, probabilmente inevitabile, se non addirittura necessaria.
Verrebbe da dire tuttavia che tutte queste componenti vengono vanificate se ne manca una in particolare, che tutte le riassume e le anima: il contatto con la realtà. Questo in fondo era (e dovrebbe rimanere) il motore primo che spinge a raccontare qualcosa che si è visto, sperimentato, compreso. Lo faceva Erodoto nelle sue Storie, lo facevano i logografi nella Magna Grecia, hanno continuato a farlo per secoli cronisti e analisti europei, storici e memorialisti di ogni fatta, ciascuno con la propria personale inclinazione (o distorsione prospettica, anche) ma inevitabilmente mantenendo separati quei due mondi contigui eppure diversissimi che sono la realtà dalla fantasia, la nudità dei fatti dalla letteratura, che di per sé è e non può che essere un sublime inganno attuato con la piena complicità del lettore.
Ecco, qui sta il punto. Oggi viviamo in una terra di mezzo, in cui i giornali credono troppo a se stessi e la realtà tende a plasmarsi attraverso l'autoabbaglio che i media provvedono a fabbricare. È superfluo rammentare la grande allucinazione collettiva americana, che due anni fa dipingeva una società totalmente avversa a Bush, alla gue rra in Iraq e totalmente aperta alle sperimentazioni sociali più ardite, allucinazione supportata da tutte le grandi testate (ad eccezione del Wall Street Journal) e poi smentita da un elettorato che metteva l'Iraq al quarto posto nelle emergenze e il disordine etico al primo, bocciando Kerry e facendo trionfare il pur immeritevole George W.Bush. Stessa cosa accadeva in Francia, dove da Le Monde a Libération a tutta l'ala radical chic della sinistra "al caviale" si piangeva compunti sui disastri italiani ma nessuno, ripetiamo nessuno si accorgeva che Jean-Marie Le Pen stava annientando il governo socialista e insidiava alle politiche il centrodestra di Chirac. Anche sponsorizzare in modo faraonico cause perse come referendum che non arrivano al 10 per cento del quorum o movimenti che non ottengono neanche uno scranno al Senato è una imbarazzante fuga dal buon senso.
Abbagli, distorsioni prospettiche, strabismi, errori di parallasse: troppi, ormai, anche in casa nostra. I media, cioè, sembrano non saper più cogliere la realtà delle cose, ma solo evocarla: purgata, modificata, abbagliata dai propri - legittimi, è ovvio - pregiudizi. Il Paese reale, insomma, non c'è, non viene descritto, non viene capito. Schopenhauer coniò un termine per definire tale attitudine: Wunschvorstellung, come dire volontà di rappresentazione, o anche il suo opposto, rappresentazione di un volere. Entrambe le cose però, lontanissime dalla realtà. Errore in cui si sta cadendo, nel mondo dell'informazione, troppo di frequente ormai. Forse bisogna ripensare il giornalismo. Sempre che si possa ancora definirlo tale. [Avvenire]