Ewigen
10-03-2006, 23:03
[INTERVISTA
«L'editoriale di Paolo Mieli rompe definitivamente una grande tradizione dei mezzi d'informazione italiani che raccontavano i fatti, anche politici, senza prendere partito. Una deriva pericolosa che deve far riflettere»: nella polemica interviene Lanfranco Vaccari, direttore del «Secolo XIX»
Giornali, scelta di campo?
«Un giornalista ha il dovere della "terzietà", non deve schierarsi e neppure candidarsi alle elezioni. Se altri direttori seguiranno la strada del quotidiano milanese il rischio è che il Paese si trovi ancora più spaccato di prima»«Pazienza i fogli di opinione che hanno una ispirazione politica e si sa da che parte stanno: ma se anche il "Corriere" cede a questa logica il clima della demonizzazione continua dell’avversario politico non potrà che inasprirsi»
Dal Nostro Inviato A Genova
Pierangelo Giovanetti
La storiella la racconta mentre assapora lentamente un sigaro, ammorbando la stanza di un fumo denso e irrespirabile che fa tanto atmosfera di giornalismo d'altri tempi. Subito dopo la guerra, nella Francia del 1918, le «Quotidien du Paris», giornale di sinistra, mandò un suo cronista Albert Londres nella Ruhr per raccontare la realtà dell'occupazione francese. Londres andò e vide che le truppe francesi se ne stavano tranquille in caserma, mentre i tedeschi vivevano la loro vita normale. Tutto il contrario di quanto sosteneva nei suoi editoriali il direttore, che si batteva contro l'occupazione francese. Londres scrisse i suoi articoli, li inviò, ma nessuno di questi venne pubblicato. Tornò allora a Parigi e si presentò dal direttore che tranquillo gli rispose: «Vedi, mio caro. I tuoi articoli non seguono la linea editoriale di questo giornale». E Albert Londres, senza scomporsi troppo, riprendendosi gli articoli e imboccando la via della porta, ribattè: «Signor direttore, credo che l'unica linea che un giornalista debba seguire sia la linea ferroviaria».
«Ecco, questo è il senso del nostro mestiere», sbotta Lanfranco Vaccari, direttore del Secolo XIX, uomo di sinistra e autore di un editoriale controcorrente dal titolo «Il mestiere di un giornale». «Altrimenti sei altro - incalza il direttore - . Non fai giornalismo d'informazione. Con l'editoriale di Paolo Mieli, il "Corriere della Sera" ha scelto di essere altro. Qualcosa che cozza contro la sua storia, tradizione, direi la sua essenza. È questo lo sconcerto dei lettori. Non tanto il fatto che abbia scelto il centrosinistra, invece del centrodestra. Quanto che abbia fatto cambiar pelle al vecchio Currierun, che per gli italiani è un'istituzione».
Vaccari, non è la prima volta che il «Corriere» prende posizione durante la campagna elettorale. Molti giornali un'esplicita scelta di campo l'hanno già fatta, e i lettori lo sanno. Mieli dice che è una scelta di chiarezza e di trasparenza.
«No, non è così. Un conto sono i giornali d'opinione, "l'Unità", "il Giornale", "Libero", "il Manifesto", "Il Foglio", "il Riformista", che si sa già a priori da che parte stanno. E un conto sono i giornali d'informazione, che hanno per vocazione il compito di raccontare in maniera onesta ciò che vedono. Il che non vuol dire non avere opinioni forti, ma significa non esprimere posizioni pregiudiziali. Il buon giornalista deve sforzarsi di essere un distaccato osservatore degli avvenimenti, non un attore coinvolto. O, ancor meno, un tifoso accalorato. Il "Corriere" non è "Repubblica", giornale peraltro tecnicamente molto ben fatto, ma che è giornale-partito. Il "Corriere" ha sempre avuto una grande tradizione di giornalismo d'informazione. Oggi in Italia non esiste più un grande quotidiano d'informazione».
L'obiezione che si fa a tale ragionamento è quella classica, quasi scontata: …negli Stati Uniti e in Gran Bretagna questo succede. Anzi, è normale che un giornale sponsorizzi un candidato o uno schieramento. Quello che si chiama endorsement.
«Il parallelo non sta in piedi, perché il costume giornalistico americano è molto diverso dal nostro. Là, la linea di demarcazione fra i fatti e i commenti è netta. Da noi no. Là non esiste che un articolo di cronaca politica sia infarcito di giudizi. Da noi sì. In America e in Inghilterra chi fa il reporter ha l'obbligo di attenersi, nei suoi resoconti, ai principi dell'equità e dell'accuratezza. In Italia, quando succede, è per una scelta volontaria. Ma c'è una differenza ancora più grande che distingue i due contesti: la mancanza di valori condivisi. In Italia la politica non è stata in grado di proporre valori condivisi fra centro-destra e centro-sinistra. E a mio avviso, il ruolo fondamentale che un grande giornale d'informazione deve avere nel nostro Paese è di cercare disperatamente di creare l'idea di un destino comune, che è stata persa di vista».
Insomma un giornale non di opinione che si schiera da una parte invece di creare un humus comune su cui confrontarsi, viene meno al proprio dovere.
«Per me sì, soprattutto in un Paese in cui non si è d'accordo su niente, nemmeno sull'idea di Stato, di magistratura, di politica estera. Lo schieramento del giornale d'informazione acuisce questa divisione, invece di ricomporla, invece di aiutare a superarla. Chi ci aiuta a maturare l'appartenenza ad un destino comune, prima squalificata dal fascismo e poi persa di vista? Ci ha provato il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel suo settennato, ma senza l'appoggio della politica si è ridotto ad un sentimento buonista. Se ci fossero valori condivisi, non ci sarebbe ad ogni cambio di governo la volontà di buttare tutto a mare quello che ha fatto il governo precedente».
Al "Corriere" motivano che è stata proprio la gravità della situazione del Paese a portare il direttore Paolo Mieli a una scelta di campo. Anche per evitare il pareggio e l'impasse politica.
«Non regge neanche questo argomento, anche per il fatto che entrambi gli schieramenti hanno al loro interno margini d'incoerenza e di contraddizione devastanti. E poi, proprio perché la situazione è grave, c'è bisogno di qualcuno che aiuti a superare la demonizzazione quotidiana, il sentimento apocalittico che da una parte ci sta il bene e dall'altra il male. Creare una comunità di valori condivisi: questo dovrebbe fare un giornale come il "Corriere". L'aver preso posizione per una parte, rende questa missione impossibile».
Dopo l'editoriale di Paolo Mieli, cambierà il modo di fare giornalismo in Italia? Giulio Anselmi, direttore della "Stampa", ha già dichiarato che farà lo stesso poco prima del voto. Un altro grande quotidiano nazionale che farà dichiarazione di voto.
«A mio avviso quell'editoriale non segna un cambiamento, ma un ulteriore passo verso lo svilimento del giornalismo italiano. Quanto ad altri direttori che faranno lo stesso, mi sembra solo un cattivo sci mmiottamento di modelli. Nel 1962 Albert Camus in Algeria venne attaccato duramente perché scriveva che i paracadutisti francesi compivano atrocità mai viste, e che il Fronte di liberazione nazionale faceva cose altrettanto orride. Gli dicevano: ti devi schierare. E lui rispondeva: non posso schierarmi. Non sarei più credibile».
Secondo lei, un giornalista, si può schierare, o viene meno al suo dovere di terzietà?
«No, non si deve schierare. Secondo me i giornalisti, come pure i magistrati, non dovrebbero nemmeno candidarsi alle elezioni. Perché, se svolgi una professione che ha dentro di sé questa missione, e poi ti candidi, nessuno può poi togliermi il dubbio e il sospetto che anche prima le scelte fossero condizionate da questo tuo convincimento».
Questo endorsement dichiarato dal direttore Mieli, secondo lei, cambierà il modo di fare informazione dei giornalisti del "Corriere"?
«Non credo che dopo questo editoriale il modo di coprire la campagna elettorale da parte del Corriere cambierà, ma la percezione sarà diversa. E questo è sufficiente. Tutto si svolgerà come prima, ma l'impressione che ne avranno i lettori sarà diversa. Lo sconcerto che ha provocato l'uscita dell'editoriale tra i lettori è proprio questo: il pensare che il proprio giornale non svolga più il suo dovere come prima».[Avvenire]
«L'editoriale di Paolo Mieli rompe definitivamente una grande tradizione dei mezzi d'informazione italiani che raccontavano i fatti, anche politici, senza prendere partito. Una deriva pericolosa che deve far riflettere»: nella polemica interviene Lanfranco Vaccari, direttore del «Secolo XIX»
Giornali, scelta di campo?
«Un giornalista ha il dovere della "terzietà", non deve schierarsi e neppure candidarsi alle elezioni. Se altri direttori seguiranno la strada del quotidiano milanese il rischio è che il Paese si trovi ancora più spaccato di prima»«Pazienza i fogli di opinione che hanno una ispirazione politica e si sa da che parte stanno: ma se anche il "Corriere" cede a questa logica il clima della demonizzazione continua dell’avversario politico non potrà che inasprirsi»
Dal Nostro Inviato A Genova
Pierangelo Giovanetti
La storiella la racconta mentre assapora lentamente un sigaro, ammorbando la stanza di un fumo denso e irrespirabile che fa tanto atmosfera di giornalismo d'altri tempi. Subito dopo la guerra, nella Francia del 1918, le «Quotidien du Paris», giornale di sinistra, mandò un suo cronista Albert Londres nella Ruhr per raccontare la realtà dell'occupazione francese. Londres andò e vide che le truppe francesi se ne stavano tranquille in caserma, mentre i tedeschi vivevano la loro vita normale. Tutto il contrario di quanto sosteneva nei suoi editoriali il direttore, che si batteva contro l'occupazione francese. Londres scrisse i suoi articoli, li inviò, ma nessuno di questi venne pubblicato. Tornò allora a Parigi e si presentò dal direttore che tranquillo gli rispose: «Vedi, mio caro. I tuoi articoli non seguono la linea editoriale di questo giornale». E Albert Londres, senza scomporsi troppo, riprendendosi gli articoli e imboccando la via della porta, ribattè: «Signor direttore, credo che l'unica linea che un giornalista debba seguire sia la linea ferroviaria».
«Ecco, questo è il senso del nostro mestiere», sbotta Lanfranco Vaccari, direttore del Secolo XIX, uomo di sinistra e autore di un editoriale controcorrente dal titolo «Il mestiere di un giornale». «Altrimenti sei altro - incalza il direttore - . Non fai giornalismo d'informazione. Con l'editoriale di Paolo Mieli, il "Corriere della Sera" ha scelto di essere altro. Qualcosa che cozza contro la sua storia, tradizione, direi la sua essenza. È questo lo sconcerto dei lettori. Non tanto il fatto che abbia scelto il centrosinistra, invece del centrodestra. Quanto che abbia fatto cambiar pelle al vecchio Currierun, che per gli italiani è un'istituzione».
Vaccari, non è la prima volta che il «Corriere» prende posizione durante la campagna elettorale. Molti giornali un'esplicita scelta di campo l'hanno già fatta, e i lettori lo sanno. Mieli dice che è una scelta di chiarezza e di trasparenza.
«No, non è così. Un conto sono i giornali d'opinione, "l'Unità", "il Giornale", "Libero", "il Manifesto", "Il Foglio", "il Riformista", che si sa già a priori da che parte stanno. E un conto sono i giornali d'informazione, che hanno per vocazione il compito di raccontare in maniera onesta ciò che vedono. Il che non vuol dire non avere opinioni forti, ma significa non esprimere posizioni pregiudiziali. Il buon giornalista deve sforzarsi di essere un distaccato osservatore degli avvenimenti, non un attore coinvolto. O, ancor meno, un tifoso accalorato. Il "Corriere" non è "Repubblica", giornale peraltro tecnicamente molto ben fatto, ma che è giornale-partito. Il "Corriere" ha sempre avuto una grande tradizione di giornalismo d'informazione. Oggi in Italia non esiste più un grande quotidiano d'informazione».
L'obiezione che si fa a tale ragionamento è quella classica, quasi scontata: …negli Stati Uniti e in Gran Bretagna questo succede. Anzi, è normale che un giornale sponsorizzi un candidato o uno schieramento. Quello che si chiama endorsement.
«Il parallelo non sta in piedi, perché il costume giornalistico americano è molto diverso dal nostro. Là, la linea di demarcazione fra i fatti e i commenti è netta. Da noi no. Là non esiste che un articolo di cronaca politica sia infarcito di giudizi. Da noi sì. In America e in Inghilterra chi fa il reporter ha l'obbligo di attenersi, nei suoi resoconti, ai principi dell'equità e dell'accuratezza. In Italia, quando succede, è per una scelta volontaria. Ma c'è una differenza ancora più grande che distingue i due contesti: la mancanza di valori condivisi. In Italia la politica non è stata in grado di proporre valori condivisi fra centro-destra e centro-sinistra. E a mio avviso, il ruolo fondamentale che un grande giornale d'informazione deve avere nel nostro Paese è di cercare disperatamente di creare l'idea di un destino comune, che è stata persa di vista».
Insomma un giornale non di opinione che si schiera da una parte invece di creare un humus comune su cui confrontarsi, viene meno al proprio dovere.
«Per me sì, soprattutto in un Paese in cui non si è d'accordo su niente, nemmeno sull'idea di Stato, di magistratura, di politica estera. Lo schieramento del giornale d'informazione acuisce questa divisione, invece di ricomporla, invece di aiutare a superarla. Chi ci aiuta a maturare l'appartenenza ad un destino comune, prima squalificata dal fascismo e poi persa di vista? Ci ha provato il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel suo settennato, ma senza l'appoggio della politica si è ridotto ad un sentimento buonista. Se ci fossero valori condivisi, non ci sarebbe ad ogni cambio di governo la volontà di buttare tutto a mare quello che ha fatto il governo precedente».
Al "Corriere" motivano che è stata proprio la gravità della situazione del Paese a portare il direttore Paolo Mieli a una scelta di campo. Anche per evitare il pareggio e l'impasse politica.
«Non regge neanche questo argomento, anche per il fatto che entrambi gli schieramenti hanno al loro interno margini d'incoerenza e di contraddizione devastanti. E poi, proprio perché la situazione è grave, c'è bisogno di qualcuno che aiuti a superare la demonizzazione quotidiana, il sentimento apocalittico che da una parte ci sta il bene e dall'altra il male. Creare una comunità di valori condivisi: questo dovrebbe fare un giornale come il "Corriere". L'aver preso posizione per una parte, rende questa missione impossibile».
Dopo l'editoriale di Paolo Mieli, cambierà il modo di fare giornalismo in Italia? Giulio Anselmi, direttore della "Stampa", ha già dichiarato che farà lo stesso poco prima del voto. Un altro grande quotidiano nazionale che farà dichiarazione di voto.
«A mio avviso quell'editoriale non segna un cambiamento, ma un ulteriore passo verso lo svilimento del giornalismo italiano. Quanto ad altri direttori che faranno lo stesso, mi sembra solo un cattivo sci mmiottamento di modelli. Nel 1962 Albert Camus in Algeria venne attaccato duramente perché scriveva che i paracadutisti francesi compivano atrocità mai viste, e che il Fronte di liberazione nazionale faceva cose altrettanto orride. Gli dicevano: ti devi schierare. E lui rispondeva: non posso schierarmi. Non sarei più credibile».
Secondo lei, un giornalista, si può schierare, o viene meno al suo dovere di terzietà?
«No, non si deve schierare. Secondo me i giornalisti, come pure i magistrati, non dovrebbero nemmeno candidarsi alle elezioni. Perché, se svolgi una professione che ha dentro di sé questa missione, e poi ti candidi, nessuno può poi togliermi il dubbio e il sospetto che anche prima le scelte fossero condizionate da questo tuo convincimento».
Questo endorsement dichiarato dal direttore Mieli, secondo lei, cambierà il modo di fare informazione dei giornalisti del "Corriere"?
«Non credo che dopo questo editoriale il modo di coprire la campagna elettorale da parte del Corriere cambierà, ma la percezione sarà diversa. E questo è sufficiente. Tutto si svolgerà come prima, ma l'impressione che ne avranno i lettori sarà diversa. Lo sconcerto che ha provocato l'uscita dell'editoriale tra i lettori è proprio questo: il pensare che il proprio giornale non svolga più il suo dovere come prima».[Avvenire]