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07-03-2006, 15:53
"
Beretta connection
Pistole della nostra polizia. Rivendute all'Iraq. E
trovate anche in mano
alla guerriglia. E ora una legge rischia di
bloccare l'inchiesta
di Peter Gomez e Marco Lillo
Ci voleva un
premier come Silvio Berlusconi per mettere in mano al tedoforo,
al
posto della fiaccola, una bella pistola fumante. Una Beretta calibro
nove, per l'esattezza. È accaduto l'8 febbraio, quando nel decreto per
le
Olimpiadi, approvato dalla maggioranza a colpi di fiducia, è
spuntato un
articolo che non riguarda le gare di sci, quelle di bob o
la sicurezza dei
Giochi, ma la compravendita delle armi da guerra. Due
righe in tutto con cui
il governo permette ai fabbricanti di
mitragliatrici e fucili anche "la
riparazione delle armi prodotte" e
"le attività commerciali connesse". Nove
parole dietro le quali si
nasconde l'ennesima legge ad personam, anzi ad
armam. Una legge che
salva le pistole di un caro amico e sostenitore del
leader di Forza
Italia, Ugo Gussalli Beretta, patron dell'omonima industria
di Gardone
Val Trompia, e soprattutto tenta di mettere la sordina a uno
scandalo
con pochi precedenti: la svendita da parte del Viminale di migliaia
di
pistole della Polizia che oggi sparano in Iraq non solo in mano alle
forze dell'ordine locali, ma anche in quelle degli amici di Al Zarqawi.
Per capire che cosa è successo bisogna andare a Brescia, in Procura,
dove da
più di un anno lo storico stabilimento è sotto inchiesta per
una storia
nera, fatta di armi rubate o senza numero di matricola, di
società
probabilmente vicine ai servizi segreti e di triangolazioni con
la Gran
Bretagna. Una storia che preoccupa la Beretta (in caso di
condanna
potrebbero essere messe in discussione le licenze di
fabbricazione) e
provoca molti imbarazzi anche a Roma, al ministero
dell'Interno. Al centro
di tutto, come 'L'espresso' è in grado di
rivelare, ci sono più di 40 mila
Beretta della Polizia italiana, metà
delle quali già approdate attraverso un
giro tortuoso e, secondo i
magistrati, illegale in Iraq, in parte anche
nelle mani degli insorti.
Le Beretta in questione erano quelle in dotazione
alla Polizia dal
1978. Quando avevano ormai compiuto la loro gloriosa
carriera invece
di finire dal robivecchi sono state riacquistate dalla
società
lombarda. Dopo la caduta di Baghdad, in Iraq si erano aperte ricche
prospettive di mercato. Bisognava riarmare le nuove forze dell'ordine e
le
pistole dei nostri poliziotti, rimesse a nuovo in fretta e furia,
erano
state spedite sul teatro di guerra attraverso una triangolazione
con una
società britannica. Il tutto, secondo i pm di Brescia, in
violazione delle
norme sul commercio di armi.
Il diavolo però fa le
pentole, ma non i coperchi. Così l'affare comincia a
venire alla luce
il 6 dicembre del 2004. Quel giorno viene arrestata una
dipendente
della Beretta mentre tenta di portare una calibro nove fuori
dalla
fabbrica. È un'impiegata addetta al magazzino. Ha accesso ai registri
informatici della società e i carabinieri, che le trovano in casa altri
due
revolver, ipotizzano un suo legame con la malavita organizzata
calabrese.
Inizialmente la donna viene accusata di aver asportato tra
marzo e dicembre
ben 152 pistole. Ma agli investigatori basta poco per
rendersi conto che
all'interno del magazzino si sono verificate
numerose irregolarità che non
dipendono da lei. Come si legge
nell'ordinanza del tribunale del riesame,
con cui è stato confermato il
sequestro della seconda tranche di 15.478
pistole semi-automatiche
dirette in Iraq, la Beretta custodiva "armi prive
di matricola o con
matricola abrasa o ripunzonata, armi prive di punzoni del
Banco
Nazionale Prove", mentre dal magazzino erano spuntate fuori anche
alcune delle 152 pistole che secondo il registro risultavano rubate. In
un
caso poi viene anche sfiorata la spy-story. Tra le armi conservate
in
azienda ce ne è una il cui furto risulta denunciato dai nostri
servizi
segreti nel 1980. È la stessa pistola o sono due armi diverse?
Una sola cosa
è certa. In fabbrica le regole non sono rispettate.
Durante una
perquisizione vengono scoperte addirittura centinaia di
Beretta 92S
"sprovviste di numeri di matricola ed altre che non
risultano prese in
carico sul registro informatico di Pubblica
sicurezza della ditta (che al
contrario di quanto accade normalmente
viene firmato non dalla questura ma
dal sindaco di Gardone ndr)".
Un'armeria fantasma in piena regola.
La vicenda probabilmente si
sarebbe chiusa qui se, il 14 febbraio del 2005,
i carabinieri di stanza
in Iraq non avessero comunicato che "alcune pistole
Beretta 92S" erano
state "rinvenute in possesso di forze 'ostili'". A quel
punto l'intera
storia comincia a scottare. E minaccia di diventare un caso
internazionale. Molte delle armi sequestrate agli insorti risultano
"vendute
tra il 1978 e il 1980 dalla Beretta al ministero dell'Interno"
italiano.
Perché? Bastano poche settimane per svelare l'arcano: tra il
febbraio del
2003 e l'aprile del 2004, 44.926 pezzi dichiarati "fuori
uso" dal ministero
erano stati ceduti alla Beretta nell'ambito di due
contratti per una nuova
fornitura. La società di Brescia le aveva poi
'rigenerate' e tra il giugno e
il luglio del 2004 ne aveva rivendute
20.318 a una società inglese, la Super
Vision International Ltd,
insieme a 20 mila carrelli di ricambio "per un
controvalore di un
milione e 398 mila e 826 euro".
Beretta aveva richiesto alla
prefettura di Brescia l'autorizzazione
all'esportazione. Aveva ricevuto
l'ok, ma sui documenti non risultava il
nome della ditta acquirente (la
sconosciuta Super Vision), ma quello di una
seconda azienda con una
sede prestigiosa e una storia ventennale: la
Heltston Gunsmith. Secondo
gli investigatori non è una semplice casualità.
Se fosse emerso il nome
della Super Vision la licenza all'esportazione
sarebbe stata negata o
ritardata. Il prefetto, come spiegano i giudici, deve
infatti poter
assumere informazioni sull'affidabilità dell'acquirente e in
questo
caso non ha potuto "sapere in anticipo la reale destinazione finale
della merce, ovvero l'Iraq, ed eventualmente sospendere
l'esportazione".
Il commercio delle armi è regolamentato in maniera
severa. A partire dal
2001 i controlli sono diventati ancora più
stringenti. Da tre anni a questa
parte poi il ministero dell'Interno
richiede sempre il certificato 'end
user' (utilizzatore finale) e
soprattutto lo valuta, incrociandolo con le
relazioni del Sismi sulla
situazione politica del paese realmente
destinatario delle armi.
Proprio per questo il ministero ha bloccato grosse
forniture Beretta in
Centramerica, Medio Oriente e Asia. La cosa,
ovviamente, ha infastidito
molto l'azienda. Ugo Gussalli Beretta, un uomo
talmente legato da
rapporti di amicizia a Berlusconi e alla famiglia del
presidente
americano Bush da essere stato proposto come ambasciatore
italiano a
Washington (vedi scheda in questa pagina), ha attivato i suoi
canali
politici per lamentarsi della burocrazia divenuta, a suo dire, troppo
rigida. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta
si è
così rivolto al ministro Giuseppe Pisanu che ha fatto pressioni
sul proprio
apparato. Ma le procedure non sono cambiate.
Un bel
problema per la Beretta che a partire dal 2003, con la caduta di
Saddam
Hussein, vuole finalmente rientrare in un mercato precluso da anni.
Grazie all'accordo con il ministero dell'Interno vengono ritirate a un
prezzo bassissimo, pare inferiore ai dieci euro, le vecchie pistole
(qualificate come 'fuori uso' anche se spesso sono perfettamente
funzionanti) e già in questo caso ci si muove con disinvoltura. I quasi
45
mila pezzi arrivano a Brescia senza che il ministero della Difesa
(come
previsto da una legge del 2000) ne abbia deliberato la
dismissione. Da
questo punto di vista, secondo i giudici, "la stessa
cessione delle armi da
parte del ministero (dell'Interno, ndr) appare
illegale". Non solo: Beretta
non ha più dal 2002 la licenza per
riparare le armi. Quindi non può nemmeno
rimetterle in funzione per
rivenderle. L'azienda non se preoccupa. Comincia
le spedizioni e solo
quando la merce è già partita chiede per via ufficiale
di esportare in
Iraq armi destinate alla Cpa (Coalition Provisional
Authority), il
governo provvisorio di Baghdad. Ma, di fronte alle domande di
chiarimenti, rinuncia. E, proprio in quel periodo, conclude la
triangolazione con il Regno Unito.
Poi iniziano i problemi. Prima
l'arresto della dipendente infedele. Quindi
il ritrovamento da parte
dei carabinieri delle nostre vecchie armi impugnate
dagli insorti.
Evidentemente qualcosa in Iraq è andato storto. Alcune
Beretta 92S sono
passate di mano. Nel caos del dopo Saddam la polizia locale
le ha
cedute alla cosiddetta resistenza. L'11 febbraio del 2005 Pietro
Beretta, il figlio di Ugo, annuncia che l'azienda "è vicina" ad
aggiudicarsi
dei contratti di fornitura per la polizia e il nuovo
esercito iracheno, ma
spiega che "le procedure di acquisizione,
attraverso i contractor, non sono
proprio semplici". In realtà, come
dimostra l'informativa dei carabinieri
redatta solo tre giorni dopo,
molte Beretta già sparano a Baghdad.
A quel punto l'azienda di Brescia
si trova di fronte a un mare di guai. Il
20 aprile la magistratura
dispone il sequestro delle restanti 15.478 vecchie
92S ancora in
magazzino ma già vendute e pagate dall'inglese Super Vision
International ltd. Una settimana dopo Ugo Gussalli Beretta presenta
ricorso
al tribunale del riesame. In ballo non c'è solo un affare
valutato
complessivamente più di due milioni e mezzo di euro. C'è molto
di più. Un
eventuale processo e un'eventuale condanna potrebbe portare
al ritiro della
licenza di fabbricazione. E se la licenza dovesse
essere ritirata la Beretta
dovrebbe essere venduta a un'altra società
in regola. Davanti ai giudici
della prima sezione penale del tribunale
l'azienda si difende così con le
unghie e con i denti. Sostiene che
avendo già in mano una licenza che gli
permette di fabbricare armi,
detenerle e poi venderle, non era necessario
richiederne una seconda
per ripararle e commercializzarle. Aggiunge che le
Beretta 92S non
vanno considerate armi da guerra (e quindi soggette a
particolari
restrizioni). Afferma di "aver notiziato il capo della Polizia
della
destinazione finale delle pistole". I giudici del riesame le danno
però torto su tutta la linea. Anche per loro sono state violate "le
norme in
materia di acquisto, riparazione ed esportazione". Il
sequestro delle
pistole è confermato.
Si cominciano così a battere
altre strade. Tutte politiche. La Beretta
insiste col ministero nel
chiedere la semplificazione delle procedure e
Pisanu preme
sull'apparato. Poi si apre uno spiraglio: il decreto sulle
Olimpiadi.
All'improvviso il governo cambia la legge: chi fabbrica pistole
può
anche ripararle e commercializzarle. Poco importa se già il tribunale
aveva spiegato quale fosse la ratio di una norma "che mira a proteggere
l'ordine pubblico interno e internazionale ponendo sotto rigido
controllo
ogni passaggio e trasferimento di ogni singola arma". Una
legge che se
ignorata porterebbe all'assurdo di rendere non punibile la
commercializzazione, da parte di chi ha una generica licenza di
detenzione e
vendita di armi, di pistole e fucili provento di furto.
In molti tirano un
sospiro di sollievo. E non solo a Brescia, ma anche
a Roma, dove decine di
migliaia di pistole sono state vendute come
"fuori uso", quando bastava un
po' di grasso per permettere loro di
ricominciare a sparare.
"
Beretta connection
Pistole della nostra polizia. Rivendute all'Iraq. E
trovate anche in mano
alla guerriglia. E ora una legge rischia di
bloccare l'inchiesta
di Peter Gomez e Marco Lillo
Ci voleva un
premier come Silvio Berlusconi per mettere in mano al tedoforo,
al
posto della fiaccola, una bella pistola fumante. Una Beretta calibro
nove, per l'esattezza. È accaduto l'8 febbraio, quando nel decreto per
le
Olimpiadi, approvato dalla maggioranza a colpi di fiducia, è
spuntato un
articolo che non riguarda le gare di sci, quelle di bob o
la sicurezza dei
Giochi, ma la compravendita delle armi da guerra. Due
righe in tutto con cui
il governo permette ai fabbricanti di
mitragliatrici e fucili anche "la
riparazione delle armi prodotte" e
"le attività commerciali connesse". Nove
parole dietro le quali si
nasconde l'ennesima legge ad personam, anzi ad
armam. Una legge che
salva le pistole di un caro amico e sostenitore del
leader di Forza
Italia, Ugo Gussalli Beretta, patron dell'omonima industria
di Gardone
Val Trompia, e soprattutto tenta di mettere la sordina a uno
scandalo
con pochi precedenti: la svendita da parte del Viminale di migliaia
di
pistole della Polizia che oggi sparano in Iraq non solo in mano alle
forze dell'ordine locali, ma anche in quelle degli amici di Al Zarqawi.
Per capire che cosa è successo bisogna andare a Brescia, in Procura,
dove da
più di un anno lo storico stabilimento è sotto inchiesta per
una storia
nera, fatta di armi rubate o senza numero di matricola, di
società
probabilmente vicine ai servizi segreti e di triangolazioni con
la Gran
Bretagna. Una storia che preoccupa la Beretta (in caso di
condanna
potrebbero essere messe in discussione le licenze di
fabbricazione) e
provoca molti imbarazzi anche a Roma, al ministero
dell'Interno. Al centro
di tutto, come 'L'espresso' è in grado di
rivelare, ci sono più di 40 mila
Beretta della Polizia italiana, metà
delle quali già approdate attraverso un
giro tortuoso e, secondo i
magistrati, illegale in Iraq, in parte anche
nelle mani degli insorti.
Le Beretta in questione erano quelle in dotazione
alla Polizia dal
1978. Quando avevano ormai compiuto la loro gloriosa
carriera invece
di finire dal robivecchi sono state riacquistate dalla
società
lombarda. Dopo la caduta di Baghdad, in Iraq si erano aperte ricche
prospettive di mercato. Bisognava riarmare le nuove forze dell'ordine e
le
pistole dei nostri poliziotti, rimesse a nuovo in fretta e furia,
erano
state spedite sul teatro di guerra attraverso una triangolazione
con una
società britannica. Il tutto, secondo i pm di Brescia, in
violazione delle
norme sul commercio di armi.
Il diavolo però fa le
pentole, ma non i coperchi. Così l'affare comincia a
venire alla luce
il 6 dicembre del 2004. Quel giorno viene arrestata una
dipendente
della Beretta mentre tenta di portare una calibro nove fuori
dalla
fabbrica. È un'impiegata addetta al magazzino. Ha accesso ai registri
informatici della società e i carabinieri, che le trovano in casa altri
due
revolver, ipotizzano un suo legame con la malavita organizzata
calabrese.
Inizialmente la donna viene accusata di aver asportato tra
marzo e dicembre
ben 152 pistole. Ma agli investigatori basta poco per
rendersi conto che
all'interno del magazzino si sono verificate
numerose irregolarità che non
dipendono da lei. Come si legge
nell'ordinanza del tribunale del riesame,
con cui è stato confermato il
sequestro della seconda tranche di 15.478
pistole semi-automatiche
dirette in Iraq, la Beretta custodiva "armi prive
di matricola o con
matricola abrasa o ripunzonata, armi prive di punzoni del
Banco
Nazionale Prove", mentre dal magazzino erano spuntate fuori anche
alcune delle 152 pistole che secondo il registro risultavano rubate. In
un
caso poi viene anche sfiorata la spy-story. Tra le armi conservate
in
azienda ce ne è una il cui furto risulta denunciato dai nostri
servizi
segreti nel 1980. È la stessa pistola o sono due armi diverse?
Una sola cosa
è certa. In fabbrica le regole non sono rispettate.
Durante una
perquisizione vengono scoperte addirittura centinaia di
Beretta 92S
"sprovviste di numeri di matricola ed altre che non
risultano prese in
carico sul registro informatico di Pubblica
sicurezza della ditta (che al
contrario di quanto accade normalmente
viene firmato non dalla questura ma
dal sindaco di Gardone ndr)".
Un'armeria fantasma in piena regola.
La vicenda probabilmente si
sarebbe chiusa qui se, il 14 febbraio del 2005,
i carabinieri di stanza
in Iraq non avessero comunicato che "alcune pistole
Beretta 92S" erano
state "rinvenute in possesso di forze 'ostili'". A quel
punto l'intera
storia comincia a scottare. E minaccia di diventare un caso
internazionale. Molte delle armi sequestrate agli insorti risultano
"vendute
tra il 1978 e il 1980 dalla Beretta al ministero dell'Interno"
italiano.
Perché? Bastano poche settimane per svelare l'arcano: tra il
febbraio del
2003 e l'aprile del 2004, 44.926 pezzi dichiarati "fuori
uso" dal ministero
erano stati ceduti alla Beretta nell'ambito di due
contratti per una nuova
fornitura. La società di Brescia le aveva poi
'rigenerate' e tra il giugno e
il luglio del 2004 ne aveva rivendute
20.318 a una società inglese, la Super
Vision International Ltd,
insieme a 20 mila carrelli di ricambio "per un
controvalore di un
milione e 398 mila e 826 euro".
Beretta aveva richiesto alla
prefettura di Brescia l'autorizzazione
all'esportazione. Aveva ricevuto
l'ok, ma sui documenti non risultava il
nome della ditta acquirente (la
sconosciuta Super Vision), ma quello di una
seconda azienda con una
sede prestigiosa e una storia ventennale: la
Heltston Gunsmith. Secondo
gli investigatori non è una semplice casualità.
Se fosse emerso il nome
della Super Vision la licenza all'esportazione
sarebbe stata negata o
ritardata. Il prefetto, come spiegano i giudici, deve
infatti poter
assumere informazioni sull'affidabilità dell'acquirente e in
questo
caso non ha potuto "sapere in anticipo la reale destinazione finale
della merce, ovvero l'Iraq, ed eventualmente sospendere
l'esportazione".
Il commercio delle armi è regolamentato in maniera
severa. A partire dal
2001 i controlli sono diventati ancora più
stringenti. Da tre anni a questa
parte poi il ministero dell'Interno
richiede sempre il certificato 'end
user' (utilizzatore finale) e
soprattutto lo valuta, incrociandolo con le
relazioni del Sismi sulla
situazione politica del paese realmente
destinatario delle armi.
Proprio per questo il ministero ha bloccato grosse
forniture Beretta in
Centramerica, Medio Oriente e Asia. La cosa,
ovviamente, ha infastidito
molto l'azienda. Ugo Gussalli Beretta, un uomo
talmente legato da
rapporti di amicizia a Berlusconi e alla famiglia del
presidente
americano Bush da essere stato proposto come ambasciatore
italiano a
Washington (vedi scheda in questa pagina), ha attivato i suoi
canali
politici per lamentarsi della burocrazia divenuta, a suo dire, troppo
rigida. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta
si è
così rivolto al ministro Giuseppe Pisanu che ha fatto pressioni
sul proprio
apparato. Ma le procedure non sono cambiate.
Un bel
problema per la Beretta che a partire dal 2003, con la caduta di
Saddam
Hussein, vuole finalmente rientrare in un mercato precluso da anni.
Grazie all'accordo con il ministero dell'Interno vengono ritirate a un
prezzo bassissimo, pare inferiore ai dieci euro, le vecchie pistole
(qualificate come 'fuori uso' anche se spesso sono perfettamente
funzionanti) e già in questo caso ci si muove con disinvoltura. I quasi
45
mila pezzi arrivano a Brescia senza che il ministero della Difesa
(come
previsto da una legge del 2000) ne abbia deliberato la
dismissione. Da
questo punto di vista, secondo i giudici, "la stessa
cessione delle armi da
parte del ministero (dell'Interno, ndr) appare
illegale". Non solo: Beretta
non ha più dal 2002 la licenza per
riparare le armi. Quindi non può nemmeno
rimetterle in funzione per
rivenderle. L'azienda non se preoccupa. Comincia
le spedizioni e solo
quando la merce è già partita chiede per via ufficiale
di esportare in
Iraq armi destinate alla Cpa (Coalition Provisional
Authority), il
governo provvisorio di Baghdad. Ma, di fronte alle domande di
chiarimenti, rinuncia. E, proprio in quel periodo, conclude la
triangolazione con il Regno Unito.
Poi iniziano i problemi. Prima
l'arresto della dipendente infedele. Quindi
il ritrovamento da parte
dei carabinieri delle nostre vecchie armi impugnate
dagli insorti.
Evidentemente qualcosa in Iraq è andato storto. Alcune
Beretta 92S sono
passate di mano. Nel caos del dopo Saddam la polizia locale
le ha
cedute alla cosiddetta resistenza. L'11 febbraio del 2005 Pietro
Beretta, il figlio di Ugo, annuncia che l'azienda "è vicina" ad
aggiudicarsi
dei contratti di fornitura per la polizia e il nuovo
esercito iracheno, ma
spiega che "le procedure di acquisizione,
attraverso i contractor, non sono
proprio semplici". In realtà, come
dimostra l'informativa dei carabinieri
redatta solo tre giorni dopo,
molte Beretta già sparano a Baghdad.
A quel punto l'azienda di Brescia
si trova di fronte a un mare di guai. Il
20 aprile la magistratura
dispone il sequestro delle restanti 15.478 vecchie
92S ancora in
magazzino ma già vendute e pagate dall'inglese Super Vision
International ltd. Una settimana dopo Ugo Gussalli Beretta presenta
ricorso
al tribunale del riesame. In ballo non c'è solo un affare
valutato
complessivamente più di due milioni e mezzo di euro. C'è molto
di più. Un
eventuale processo e un'eventuale condanna potrebbe portare
al ritiro della
licenza di fabbricazione. E se la licenza dovesse
essere ritirata la Beretta
dovrebbe essere venduta a un'altra società
in regola. Davanti ai giudici
della prima sezione penale del tribunale
l'azienda si difende così con le
unghie e con i denti. Sostiene che
avendo già in mano una licenza che gli
permette di fabbricare armi,
detenerle e poi venderle, non era necessario
richiederne una seconda
per ripararle e commercializzarle. Aggiunge che le
Beretta 92S non
vanno considerate armi da guerra (e quindi soggette a
particolari
restrizioni). Afferma di "aver notiziato il capo della Polizia
della
destinazione finale delle pistole". I giudici del riesame le danno
però torto su tutta la linea. Anche per loro sono state violate "le
norme in
materia di acquisto, riparazione ed esportazione". Il
sequestro delle
pistole è confermato.
Si cominciano così a battere
altre strade. Tutte politiche. La Beretta
insiste col ministero nel
chiedere la semplificazione delle procedure e
Pisanu preme
sull'apparato. Poi si apre uno spiraglio: il decreto sulle
Olimpiadi.
All'improvviso il governo cambia la legge: chi fabbrica pistole
può
anche ripararle e commercializzarle. Poco importa se già il tribunale
aveva spiegato quale fosse la ratio di una norma "che mira a proteggere
l'ordine pubblico interno e internazionale ponendo sotto rigido
controllo
ogni passaggio e trasferimento di ogni singola arma". Una
legge che se
ignorata porterebbe all'assurdo di rendere non punibile la
commercializzazione, da parte di chi ha una generica licenza di
detenzione e
vendita di armi, di pistole e fucili provento di furto.
In molti tirano un
sospiro di sollievo. E non solo a Brescia, ma anche
a Roma, dove decine di
migliaia di pistole sono state vendute come
"fuori uso", quando bastava un
po' di grasso per permettere loro di
ricominciare a sparare.
"