majin mixxi
03-03-2006, 17:15
Claudio Rinaldi per “L’espresso”
'I sinistrati', sottotitolo 'L'odissea di Prodi, D'Alema & co'. È il nuovo libro di Claudio Rinaldi, in uscita per Laterza l'8 marzo (358 pagine, 15 euro). Undici anni di articoli dell'ex direttore de 'L'espresso' per raccontare le traversie affrontate dal centro-sinistra.
Anticipiamo qui di seguito l'ultima parte della prefazione scritta da Claudio Rinaldi per il suo nuovo libro 'I sinistrati'.
A una cronica gracilità si sono aggiunte, di volta in volta, le incomprensioni e le diatribe fra i riformisti stessi. Uno scontro autentico c'era stato già prima delle regionali, quando i capi della Margherita si erano rifiutati di ridare vita in tutta Italia al listone ulivista che era stato sperimentato alle europee. Quell'isolazionismo di partito non soltanto distruggeva uno dei cardini della strategia di Prodi, incrinando l'autorevolezza del leader, ma metteva anche a nudo l'inesistenza di un progetto riformista di largo respiro.
Dietro il no a Uniti per l'Ulivo, l'ambizione di Rutelli era di contendere ai Ds la guida politica e culturale del centro-sinistra. Per quasi tutto il 2005, dunque, i due massimi protagonisti del fu listone si sono fatti un'accanita concorrenza; il culmine è stato toccato in occasione del referendum che mirava ad abrogare la legge sulla fecondazione assistita, con la Quercia schierata per il sì e la Margherita, a imitazione dei vescovi, per un'astensione che equivaleva al no. Lo strappo è stato in parte rammendato soltanto dopo le primarie della coalizione per la scelta del candidato premier, il 16 ottobre, allorché Prodi ha riportato un'affermazione tanto squillante (tre quarti degli oltre 4 milioni di voti espressi) che i litiganti hanno dovuto rilanciare in fretta e furia, sia pure alla Camera e non al Senato, la lista unitaria dei riformisti da lui voluta.
Per Rutelli si è trattato di una vera inversione a U. Dovuta a un soprassalto di realismo: tirando avanti da sola la Margherita, già alle prese con sondaggi deludenti, avrebbe corso il pericolo di una disastrosa scissione dell'ala prodiana. Con il senno di poi alcuni hanno rimproverato all'ex sindaco di Roma di aver alimentato per mesi una guerriglia velleitaria all'interno della sua coalizione, aggiungendo che nei Ds, invece, uno spirito genuinamente unitario non era mai venuto meno. Ma le cose sono davvero andate così? Si può davvero escludere che Rutelli abbia fatto bene, dal suo punto di vista, a dissociarsi dal disegno ulivista quale si stava delineando?
Per i Ds, inutile nasconderselo, l'ingresso nella Federazione dell'Ulivo era subordinato alla condizione che il nuovo soggetto assegnasse loro una maggioranza certa negli organismi di vertice. Sembrava una richiesta sensata e anche costruttiva, essendo la Quercia il più forte e il meglio organizzato fra i partiti del centro-sinistra; eppure è stata quella a istradare il listone verso un binario morto, perché non teneva conto della comprensibile riluttanza dei centristi ad accettare il predominio degli ex comunisti. Se nelle altalenanti vicende dell'ultimo quindicennio si può rintracciare una costante, infatti, è proprio la provenienza dal vecchio Pci dell'intero gruppo dirigente dei Ds.
Quell'uniformità senza deroghe ha assicurato che la macchina del Botteghino conservasse un minimo di efficienza, ma ha limitato in modo drastico le possibilità di espansione politico-elettorale del partito.
Prima ancora che da Rutelli, il delicato problema era stato avvertito dagli stessi capi della Quercia. Fin dal 1994, con l'avvento della segreteria D'Alema, essi avevano predicato la necessità di trasformare il Pds, poi diventato Ds, in un grande partito socialdemocratico, sul modello di quelli che in tutta Europa ottenevano il 30-35 per cento dei voti. Ne era scaturito un progetto concreto, orribilmente soprannominato Cosa 2; anni di lavorio, però, si erano risolti in un fiasco, cioè nella cooptazione di frazioncine insignificanti (cristiano-sociali, laburisti, transfughi di Rifondazione...) presto condannate a una squallida marginalità. I reduci dal Pci hanno continuato a porsi come un monoblocco granitico, benché non avessero più una precisa ideologia alla quale rifarsi. Su quelle basi di pura autoprotezione un rinnovamento effettivo era impossibile. Non a caso il peso elettorale del partito è rimasto inchiodato, nel migliore dei casi, al 20-21 per cento dei voti, livello che gli consentiva di aspirare tutt'al più a una sorta di egemonismo straccione.
Nell'aprile del 2003 Michele Salvati, un economista di simpatie diessine, propose che la maggioranza riformista dei Ds, staccandosi dal Correntone allora vicino a Cofferati, si unisse alla Margherita nel creare un Partito democratico. Uno dei suoi argomenti era appunto che la nuova formazione, non essendo controllata dagli ex comunisti, avrebbe avuto molto più appeal dei Ds. Ma Fassino e i suoi, restii a rimettersi in gioco dentro una struttura più vasta, non accolsero il suggerimento. E anche due anni e mezzo dopo, quando è stato Rutelli, sia pure strumentalmente, a riesumare la parola d'ordine del Partito democratico, hanno reagito con una rumorosa indifferenza.
Proprio nel 2005, del resto, l'ostinato fai-da-te dei Ds ha oltrepassato i confini stessi della politica, caratterizzando sia l'attività del partito nelle istituzioni sia la sua partecipazione a certi giochi della finanza rampante. Prima c'è stato il tentativo, fallito, di catapultare alla Corte costituzionale un uomo dichiaratamente di parte come Violante; poi l'appoggio acritico dato alla Unipol, la compagnia di assicurazioni facente capo alle cooperative rosse che brigava per impadronirsi della Banca nazionale del lavoro.
La seconda sponsorizzazione si è rivelata particolarmente infelice, perché dalle indagini della magistratura sono presto affiorati i rapporti strettissimi che il trafelato presidente della Unipol, Giovanni Consorte, aveva con Gianpiero Fiorani, il parvenu di Lodi accusato di gravi irregolarità nella gestione della Banca popolare italiana e addirittura di associazione a delinquere. Che occorresse far nascere un grande polo bancario-assicurativo legato ai Ds, purtroppo, era da anni un'idea fissa della corrente dalemiana. A prescindere da ogni considerazione etica o deontologica, però, l'assalto della Unipol alla Bnl, con il sentore di affarismo partitico che ne promanava, ha reso ancora meno scorrevoli i rapporti fra Quercia e Margherita.
Considerato a posteriori, il pasticciaccio brutto Unipol-Bnl appare sintomatico di una pregiudizievole grettezza. Attenzione: non è uno scandalo che un partito carico di storia, e di quale storia!, sia geloso delle proprie caratteristiche al punto da sentirsi o volersi autosufficiente in tutti i campi; né è giusto pretendere che un collaudato gruppo di potere si suicidi nella speranza di risorgere altrove sotto diverse spoglie. Però l'ininterrotto guardarsi nello specchio ha finito per causare il peggioramento di una congenita miopia. Nel senso che ha precluso la percezione nitida di quanti danni arrecasse all'Unione, e allo stesso Botteghino, la voglia dei Ds di chiudersi a tempo indeterminato nel loro angusto recinto.
Agli occhi del mondo, piaccia o no, un partito guidato esclusivamente da ex comunisti non può avere altra identità che quella post-comunista. Ciò comporta una catena di conseguenze negative. Rende poco convincenti, innanzitutto, gli sforzi meritoriamente compiuti dai dirigenti per arricchire il loro bagaglio di valori: che D'Alema si erga a paladino del liberalismo lascia il tempo che trova, se i suoi compagni e amici sono sempre e soltanto gli ex Pci. L'identità post-comunista, poi, tiene i Ds in qualche modo ancorati a una tradizione che è anche un impasto di sentimenti, di emozioni, di tic, a un vincolo che non li aiuta a distinguersi con fermezza dalla sinistra radicale quando farlo è necessario.
Paradossalmente, però, l'ombra del passato può tradursi pure in un freno, perché per paura di essere bollati come vetero-comunisti i Ds a volte tendono a rifuggire dalle posizioni più vivacemente critiche. È a causa di quell'identità, infine, che si perpetua il declassamento dei Ds a "figli di un dio minore", per usare un'espressione cara a D'Alema e a Fassino: a meno che non ricorrano circostanze eccezionali, come l'improvvisa caduta del governo Prodi nel 1998, è impossibile che la leadership del centro-sinistra sia rivendicata da un diessino. Tanto che per la battaglia del 2006 gli stessi Ds hanno deciso fin dall'inizio di non avere altro condottiero all'infuori di Prodi, astenendosi dal partecipare alle primarie con un loro uomo.
La storia non si fa con i se, e nemmeno la cronaca. È lecito però ritenere che, se si fosse posta mano sollecitamente alla costruzione del Partito democratico, non soltanto si sarebbe sottoposta agli elettori una scommessa nuova ed esaltante, ma un po' tutta la vita quotidiana del centro-sinistra ne sarebbe stata tonificata. Lo snellimento dell'architettura di coalizione, con la scomparsa di alcune sigle, avrebbe messo ipso facto la sordina all'insopportabile chiacchiericcio politichese che infuriava da sempre; i big, invece di sparare raffiche di interviste illeggibili aventi per oggetto le loro beghe interne, si sarebbero più attentamente dedicati alla discussione dei problemi veri del paese.
Si trattava e si tratta, detto alla buona, di volare alto. Di non accontentarsi dei fragili equilibri presenti. Era proprio D'Alema, negli anni Novanta, a sottolineare a ogni pie' sospinto che senza una forte capacità di innovazione l'Ulivo sarebbe stato, parola sua, "travolto" (in realtà è sopravvissuto, ma per il rotto della cuffia). L'inverno 2005-2006, con le elezioni ormai alle porte, non è forse la stagione più adatta al varo di un'impresa che abbia le dimensioni del Partito democratico; non per nulla anche Berlusconi ha rinviato sine die il lancio dell'ipotizzato partito unico dei moderati. Però per i riformisti, e in particolare per i Ds, superare prima o poi la paura di volare rimane un imperativo politico assoluto. Non è pensabile che il centro-sinistra vada avanti a oltranza in condizioni così balorde, con un leader senza partito e un coacervo di partiti medio-piccoli senza autentici leader. L'Italia che non si riconosce nella destra merita qualcosa di meglio. Esser stati sinistrati per una dozzina di anni, quelli del berlusconismo onnivoro raccontati in questo libro, non deve né può tradursi nel fare i sinistrati a vita.
'I sinistrati', sottotitolo 'L'odissea di Prodi, D'Alema & co'. È il nuovo libro di Claudio Rinaldi, in uscita per Laterza l'8 marzo (358 pagine, 15 euro). Undici anni di articoli dell'ex direttore de 'L'espresso' per raccontare le traversie affrontate dal centro-sinistra.
Anticipiamo qui di seguito l'ultima parte della prefazione scritta da Claudio Rinaldi per il suo nuovo libro 'I sinistrati'.
A una cronica gracilità si sono aggiunte, di volta in volta, le incomprensioni e le diatribe fra i riformisti stessi. Uno scontro autentico c'era stato già prima delle regionali, quando i capi della Margherita si erano rifiutati di ridare vita in tutta Italia al listone ulivista che era stato sperimentato alle europee. Quell'isolazionismo di partito non soltanto distruggeva uno dei cardini della strategia di Prodi, incrinando l'autorevolezza del leader, ma metteva anche a nudo l'inesistenza di un progetto riformista di largo respiro.
Dietro il no a Uniti per l'Ulivo, l'ambizione di Rutelli era di contendere ai Ds la guida politica e culturale del centro-sinistra. Per quasi tutto il 2005, dunque, i due massimi protagonisti del fu listone si sono fatti un'accanita concorrenza; il culmine è stato toccato in occasione del referendum che mirava ad abrogare la legge sulla fecondazione assistita, con la Quercia schierata per il sì e la Margherita, a imitazione dei vescovi, per un'astensione che equivaleva al no. Lo strappo è stato in parte rammendato soltanto dopo le primarie della coalizione per la scelta del candidato premier, il 16 ottobre, allorché Prodi ha riportato un'affermazione tanto squillante (tre quarti degli oltre 4 milioni di voti espressi) che i litiganti hanno dovuto rilanciare in fretta e furia, sia pure alla Camera e non al Senato, la lista unitaria dei riformisti da lui voluta.
Per Rutelli si è trattato di una vera inversione a U. Dovuta a un soprassalto di realismo: tirando avanti da sola la Margherita, già alle prese con sondaggi deludenti, avrebbe corso il pericolo di una disastrosa scissione dell'ala prodiana. Con il senno di poi alcuni hanno rimproverato all'ex sindaco di Roma di aver alimentato per mesi una guerriglia velleitaria all'interno della sua coalizione, aggiungendo che nei Ds, invece, uno spirito genuinamente unitario non era mai venuto meno. Ma le cose sono davvero andate così? Si può davvero escludere che Rutelli abbia fatto bene, dal suo punto di vista, a dissociarsi dal disegno ulivista quale si stava delineando?
Per i Ds, inutile nasconderselo, l'ingresso nella Federazione dell'Ulivo era subordinato alla condizione che il nuovo soggetto assegnasse loro una maggioranza certa negli organismi di vertice. Sembrava una richiesta sensata e anche costruttiva, essendo la Quercia il più forte e il meglio organizzato fra i partiti del centro-sinistra; eppure è stata quella a istradare il listone verso un binario morto, perché non teneva conto della comprensibile riluttanza dei centristi ad accettare il predominio degli ex comunisti. Se nelle altalenanti vicende dell'ultimo quindicennio si può rintracciare una costante, infatti, è proprio la provenienza dal vecchio Pci dell'intero gruppo dirigente dei Ds.
Quell'uniformità senza deroghe ha assicurato che la macchina del Botteghino conservasse un minimo di efficienza, ma ha limitato in modo drastico le possibilità di espansione politico-elettorale del partito.
Prima ancora che da Rutelli, il delicato problema era stato avvertito dagli stessi capi della Quercia. Fin dal 1994, con l'avvento della segreteria D'Alema, essi avevano predicato la necessità di trasformare il Pds, poi diventato Ds, in un grande partito socialdemocratico, sul modello di quelli che in tutta Europa ottenevano il 30-35 per cento dei voti. Ne era scaturito un progetto concreto, orribilmente soprannominato Cosa 2; anni di lavorio, però, si erano risolti in un fiasco, cioè nella cooptazione di frazioncine insignificanti (cristiano-sociali, laburisti, transfughi di Rifondazione...) presto condannate a una squallida marginalità. I reduci dal Pci hanno continuato a porsi come un monoblocco granitico, benché non avessero più una precisa ideologia alla quale rifarsi. Su quelle basi di pura autoprotezione un rinnovamento effettivo era impossibile. Non a caso il peso elettorale del partito è rimasto inchiodato, nel migliore dei casi, al 20-21 per cento dei voti, livello che gli consentiva di aspirare tutt'al più a una sorta di egemonismo straccione.
Nell'aprile del 2003 Michele Salvati, un economista di simpatie diessine, propose che la maggioranza riformista dei Ds, staccandosi dal Correntone allora vicino a Cofferati, si unisse alla Margherita nel creare un Partito democratico. Uno dei suoi argomenti era appunto che la nuova formazione, non essendo controllata dagli ex comunisti, avrebbe avuto molto più appeal dei Ds. Ma Fassino e i suoi, restii a rimettersi in gioco dentro una struttura più vasta, non accolsero il suggerimento. E anche due anni e mezzo dopo, quando è stato Rutelli, sia pure strumentalmente, a riesumare la parola d'ordine del Partito democratico, hanno reagito con una rumorosa indifferenza.
Proprio nel 2005, del resto, l'ostinato fai-da-te dei Ds ha oltrepassato i confini stessi della politica, caratterizzando sia l'attività del partito nelle istituzioni sia la sua partecipazione a certi giochi della finanza rampante. Prima c'è stato il tentativo, fallito, di catapultare alla Corte costituzionale un uomo dichiaratamente di parte come Violante; poi l'appoggio acritico dato alla Unipol, la compagnia di assicurazioni facente capo alle cooperative rosse che brigava per impadronirsi della Banca nazionale del lavoro.
La seconda sponsorizzazione si è rivelata particolarmente infelice, perché dalle indagini della magistratura sono presto affiorati i rapporti strettissimi che il trafelato presidente della Unipol, Giovanni Consorte, aveva con Gianpiero Fiorani, il parvenu di Lodi accusato di gravi irregolarità nella gestione della Banca popolare italiana e addirittura di associazione a delinquere. Che occorresse far nascere un grande polo bancario-assicurativo legato ai Ds, purtroppo, era da anni un'idea fissa della corrente dalemiana. A prescindere da ogni considerazione etica o deontologica, però, l'assalto della Unipol alla Bnl, con il sentore di affarismo partitico che ne promanava, ha reso ancora meno scorrevoli i rapporti fra Quercia e Margherita.
Considerato a posteriori, il pasticciaccio brutto Unipol-Bnl appare sintomatico di una pregiudizievole grettezza. Attenzione: non è uno scandalo che un partito carico di storia, e di quale storia!, sia geloso delle proprie caratteristiche al punto da sentirsi o volersi autosufficiente in tutti i campi; né è giusto pretendere che un collaudato gruppo di potere si suicidi nella speranza di risorgere altrove sotto diverse spoglie. Però l'ininterrotto guardarsi nello specchio ha finito per causare il peggioramento di una congenita miopia. Nel senso che ha precluso la percezione nitida di quanti danni arrecasse all'Unione, e allo stesso Botteghino, la voglia dei Ds di chiudersi a tempo indeterminato nel loro angusto recinto.
Agli occhi del mondo, piaccia o no, un partito guidato esclusivamente da ex comunisti non può avere altra identità che quella post-comunista. Ciò comporta una catena di conseguenze negative. Rende poco convincenti, innanzitutto, gli sforzi meritoriamente compiuti dai dirigenti per arricchire il loro bagaglio di valori: che D'Alema si erga a paladino del liberalismo lascia il tempo che trova, se i suoi compagni e amici sono sempre e soltanto gli ex Pci. L'identità post-comunista, poi, tiene i Ds in qualche modo ancorati a una tradizione che è anche un impasto di sentimenti, di emozioni, di tic, a un vincolo che non li aiuta a distinguersi con fermezza dalla sinistra radicale quando farlo è necessario.
Paradossalmente, però, l'ombra del passato può tradursi pure in un freno, perché per paura di essere bollati come vetero-comunisti i Ds a volte tendono a rifuggire dalle posizioni più vivacemente critiche. È a causa di quell'identità, infine, che si perpetua il declassamento dei Ds a "figli di un dio minore", per usare un'espressione cara a D'Alema e a Fassino: a meno che non ricorrano circostanze eccezionali, come l'improvvisa caduta del governo Prodi nel 1998, è impossibile che la leadership del centro-sinistra sia rivendicata da un diessino. Tanto che per la battaglia del 2006 gli stessi Ds hanno deciso fin dall'inizio di non avere altro condottiero all'infuori di Prodi, astenendosi dal partecipare alle primarie con un loro uomo.
La storia non si fa con i se, e nemmeno la cronaca. È lecito però ritenere che, se si fosse posta mano sollecitamente alla costruzione del Partito democratico, non soltanto si sarebbe sottoposta agli elettori una scommessa nuova ed esaltante, ma un po' tutta la vita quotidiana del centro-sinistra ne sarebbe stata tonificata. Lo snellimento dell'architettura di coalizione, con la scomparsa di alcune sigle, avrebbe messo ipso facto la sordina all'insopportabile chiacchiericcio politichese che infuriava da sempre; i big, invece di sparare raffiche di interviste illeggibili aventi per oggetto le loro beghe interne, si sarebbero più attentamente dedicati alla discussione dei problemi veri del paese.
Si trattava e si tratta, detto alla buona, di volare alto. Di non accontentarsi dei fragili equilibri presenti. Era proprio D'Alema, negli anni Novanta, a sottolineare a ogni pie' sospinto che senza una forte capacità di innovazione l'Ulivo sarebbe stato, parola sua, "travolto" (in realtà è sopravvissuto, ma per il rotto della cuffia). L'inverno 2005-2006, con le elezioni ormai alle porte, non è forse la stagione più adatta al varo di un'impresa che abbia le dimensioni del Partito democratico; non per nulla anche Berlusconi ha rinviato sine die il lancio dell'ipotizzato partito unico dei moderati. Però per i riformisti, e in particolare per i Ds, superare prima o poi la paura di volare rimane un imperativo politico assoluto. Non è pensabile che il centro-sinistra vada avanti a oltranza in condizioni così balorde, con un leader senza partito e un coacervo di partiti medio-piccoli senza autentici leader. L'Italia che non si riconosce nella destra merita qualcosa di meglio. Esser stati sinistrati per una dozzina di anni, quelli del berlusconismo onnivoro raccontati in questo libro, non deve né può tradursi nel fare i sinistrati a vita.