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View Full Version : Gennaio 2004: 2 incursori italiani catturati fuggirono dalla prigionia


easyand
23-01-2006, 13:13
NEL 2004 SI ERANO INFILTRATI NEL PAESE ATTRAVERSO LA TURCHIA PER RACCOGLIERE INFORMAZIONI.

FERITI E SEQUESTRATI A UN POSTO DI BLOCCO DEI RIBELLI


Ci sono uomini che non esistono. E questa è la storia di due di loro. Agenti segreti li chiamano, ma così sottovoce che è impossibile udirne l’eco, mandati in Iraq e catturati da un gruppo di guerriglieri. Nessun clamore, nessun pubblico ricatto, nessuna ammissione, nessuna notizia. Poi la fuga, l’oblio ufficiale. Un segreto mai raccontato perché, ti avvertono, di certe cose «non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo parlare».
Il cancello arrugginito sbatté appena. In oltre due settimane non era mai successo, bloccato da un chiavistello in ferro robusto. Nella stanza disadorna e sporca si vedevano due giacigli: niente tavoli, niente sgabelli, niente tappeti. Niente di niente. Quella era come una cella di massima sicurezza in un carcere sconosciuto alle mappe.

Lawrence e il Pascià si guardarono in viso senza dire una parola, sicuri di essere sorvegliati e che almeno uno fra i carcerieri conoscesse l’italiano. Ma, forse, in due settimane, quella era la volta buona per fuggire. Si avvicinarono al battente e lo provarono. Cedette. Bisognava decidere se fosse una trappola. Il corto corridoio era immerso nel caldo e nel silenzio, dall’esterno filtrava una luce opaca. Deserte le tre stanze sulla destra. Sul fondo, un portone di solido legno grezzo: temettero di non riuscire a forzarlo, con un cigolìo allarmante si aprì al secondo tentativo.

Guardarono la strada polverosa che tagliava un quartiere di case basse. Uscirono.
L’autunno del 2003 era stato catastrofico. Centonovantaquattro giorni dopo che il presidente americano George W. Bush, dalla piattaforma di lancio della portaerei «Abraham Lincoln», aveva dichiarato conclusa la guerra, il 13 novembre, a Nassiriya, base del contingente italiano, quattro kamikaze avevano fatto strage. La guerra non era finita e quel mercoledì troppe cose non avevano funzionato.

Nell’estate 2004 a Roma, a Forte Boccea, decisero che era indispensabile saperne di più sui misteri dell’Iraq. Per il lavoro d’intelligence, che è la maniera anglosassone e un po’ ipocrita per definire lo spionaggio, occorrevano uomini in possesso di una preparazione specifica, esperti in missioni di peace keeping e di monitoraggio del territorio, resistenti alla fatica, abituati a convivere con il rischio e a venire a patti con la paura.

Avrebbero dovuto infiltrarsi nel cuore della Terra dei due fiumi, la scelta cadde su dodici ufficiali e sottufficiali dei «corpi speciali», una squadra era formata da un maresciallo del 9° Reggimento d'Assalto «Col Moschin» di 44 anni, siciliano, sposato, e da un maresciallo incursore della Marina Militare, 37, campano, «scapolo convivente».

Entrambi di statura media, capelli scuri, occhi marroni, in possesso di una preparazione che, si dice, niente ha da invidiare a quella dei molto reclamizzati Sas britannici o Navy Seals americani. La missione, che sarebbe durata un paio di mesi, venne chiamata «Khamsin», dal vento caldo e opprimente che soffia dal deserto, sembra per cinquanta giorni.

La porta secondaria dell’Iraq si apre a Nord, al confine con la Turchia, in pieno Kurdistan, dove le vette delle montagne superano i 3 mila metri, fino ai 4168 del Cilo Dagi. Punto d’incontro, Istanbul. Il contatto attendeva i due agenti seduto a un alto tavolino del Jazz Café, Hansun Gallip Sok 20, con vista sul Bosforo e musica, soprattutto blues.

Non fu un viaggio agevole, in fuoristrada Toyota, attraverso l’altopiano dell’Anatolia fino al massiccio meridionale: la scalata sui fianchi dei monti sembrava interminabile, il vento gelido tagliava il volto dei due incursori e della guida curda, vortici di nevischio parevano volerli precipitare nelle gole, giù all’inferno.

Nessuno li vide, evitarono i controlli. Passarono da Zakhu, prima città dopo la frontiera. Poi Mosul e a oriente verso Erbil, quindi Kirkuk, a Sud: la deviazione era necessaria per evitare Tikrit, feudo ancora quasi intatto di Saddam Hussein. La meta era Abu Ghraib, a Ovest di Baghdad. C’era un carcere, nei pressi, famoso per la vergogna che si era consumata fra le sue mura.

Due giorni, quindi traferimento a Baquba, 66 chilometri a Nord-Est della capitale: nell’area da controllare, due centrali nucleari e due dighe, in passato c’era anche una base missilistica. Un fragile coordinamento con gli americani, che avevano le forze per un eventuale intervento, doveva garantire la sicurezza, ma loro lo sapevano che in quel lavoro silenzioso e carico di rischi dovevano contare soprattutto su se stessi.

Indossavano ghalabia e kefiah, usavano nomi in codice: Falco era il paracadutista, Nibbio il marinaio. La dotazione di sopravvivenza personale comprendeva un revolver 38 special Smith and Wesson, una mitraglietta israeliana Uzi: entrambi con le matricole abrase; un pugnale con la lama da un lato tagliente come un rasoio e seghettata dall’altro, chiamato «Jack lo Squartatore»; nel kit di pronto soccorso c’erano garze, bende, cerotti, laccio emostatico, forbici, mercurocromo, compresse di sulfamidico, di antibiotico e per la potabilizzazione dell’acqua, siringa autoiniettante di adrenalina; una bussola; un Gps; qualche migliaia di dollari e una cospicua somma in dinari; documenti, fabbricati in Argentina. Nessuna mappa, naturalmente. Dopo settimane passate a Roma in uno «studio matto e disperatissimo», detto «calepino» nel ruvido gergo militare, il profilo dei luoghi, gli obiettivi erano impressi loro nella mente.

Li appoggiava, soprattutto negli spostamenti, un gruppo di curdi e uno di arabi antichi avversari di Saddam Hussein: furono loro a chiamarli Lawrence e il Pascià.
Fra mille cautele e un milione di rischi il lavoro d’intelligence procedette. Anche altri, e da tempo, erano naturalmente impegnati in quel gioco pericoloso. Una sola smagliatura poteva lacerare il tessuto in modo irreparabile, provocare una tragedia. Era già successo, del resto, quando, sabato 29 novembre 2003, l’intera squadra inviata in Mesopotamia dal «Centro Nacional de Inteligencia» di Madrid, era caduta in un agguato, a una trentina di chilometri da Baghdad: sette agenti trucidati, l’unico superstite, Josè Manuel Sanchez Riverao, seriamente ferito.

Che cosa aveva reso possibile l’imboscata? Quale meccanismo si era inceppato? Dov’era avvenuto lo strappo? In una parola: qual era la spina nel cuore? Al di la di ogni altra considerazione, quello era stato un tragico, squillante campanello d’allarme. Bisognava aggiungere che, da tempo, in tutto l’Iraq si era aperta la caccia all’ostaggio e martedì 13 aprile 2004, erano stati catturati Fabrizio Quattrocchi, Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana. E l’indomani la tv araba «al Jazeera» aveva annunciato l’assassinio di Quattrocchi.

Non c’erano dubbi che negli ultimi mesi i rischi si fossero moltiplicati, ma «Khamsin» non poteva essere annullata. Il fatto è che nessuno si era accorto di una minuscola, forse invisibile smagliatura. Quel giorno di fine agosto Lawrence e il Pascià avevano deciso un controllo a Nord. Era prossimo il tramonto, loro camminavano lungo una via polverosa e poco battuta. All’improvviso piombò il silenzio.

A meno di cinquanta metri un fuoristrada chiaro con alcuni armati bloccava la carreggiata. Si voltarono e scorsero un’ombra muoversi rapida. Circondati. Bisognava prendere una decisione e bisognava farlo subito: consegnarsi o battersi. Le mani s’infilarono sotto la ghalabia alla frenetica ricerca degli Uzi, gli altri fecero fuoco con i kalashnikov. Un proiettile calibro 5,56, micidiale, ferì Lawrence alla spalla destra, un secondo trapassò il collo del Pascià, a sinistra, sfiorando la carotide. «Ci balzarono addosso, forse in venti». Le canne dei mitra premute sulla schiena furono il segnale che lo scontro era concluso. Rapidi, misero sulla testa dei prigionieri un cappuccio di spesso panno scuro e legarono loro le mani dietro la schiena. Li perquisirono e una voce disse in italiano corrente: «Vi abbiamo preso con le mani nel sacco».


Dopo un viaggio di alcune ore vennero rinchiusi in quella cella, un metro e mezzo per tre, senza finestre. Due uomini dal volto coperto conducevano gli interrogatori. Le domande, sempre le stesse, erano fatte con tono di monotona minaccia: «Min antu? Wesh taamalu? Min ierselkom?», «Chi siete? Che cosa fate? Chi vi manda?», traduceva quello che parlava italiano. Di sé i carcerieri avevano detto di essere «soldati di Allah», ed erano stati accorti a non lasciar capire se appartenessero alla resistenza irachena o fossero in qualche modo legati ad Abu Musab al Zarqawi, il tagliatore di teste giordano, oppure se il gruppo tenesse l’occhio sul possibile possibile business.

«Nessuno abbandona nessuno». Tuttavia a Roma sapevano che occorreva tentare un dialogo, una trattiva, qualcosa che non sbarrasse la porta alla speranza. Fu sollecitato l’aiuto dei curdi e degli iracheni. Il primo approccio fruttò tre cose promettenti: i sequestratori non avevano risposto picche e mostrato un certo interesse che l’affaire venisse risolto dietro un riscatto in dollari, contati a milioni; inoltre, avevano mantenuto segreta la cattura. Certo, a ogni discussione l’ipotesi di accordo rischiava il naufragio. Nella cella i prigionieri, tenuti all’oscuro di tutto, pensavano di poter contare soprattutto su se stessi. E questo significava semplicemente evadere.

Fuori, nel Paese, continuava l’inferno di attentati, uccisioni, sequestri, rivendicazioni e martedì 7 settembre, a Baghdad vennero prese «le due Simone». Il rapimento calamitò l’attenzione generale, e anche i carcerieri dei due agenti dettero l’impressione di essere assai interessati. Un pomeriggio di metà settembre, Lawrence e il Pascià si accorsero che il paletto alla porta non era stato fissato bene. Decisero. Fuori il silenzio era totale. Sicuri che quelli non avrebbero potuto andarsene, i carcerieri quel giorno si erano allontanati e i due agenti ora sapevano che quello era il momento e che certe occasioni non tornano.

Forzarono il portone, potevano, dovevano uscire. Era giorno pieno e correvano un rischio enorme. La via appariva trafficata. Riconobbero il luogo e, se le vecchie informazioni in loro possesso erano ancora esatte, poco dopo sarebbe passata una pattuglia americana. Certo non potevano rimanere ad aspettarla immobili, dovevano allontanarsi dalla casa-prigione. Cominciarono a camminare, con la speranza che i loro abiti sdruciti non fossero notati. Dopo mezz’ora apparve un piccolo convoglio militare: era il momento più difficile, bisognava farsi riconoscere.

Quando gli «hummer» furono a una decina di metri, si gettarono in mezzo alla carreggiata. «Siamo italiani». Il mezzo rallentò, da un finestrino laterale spuntò un volto nascosto da occhiali e sciarpa: «Presto, fate presto!» Lawrence e il Pascià furono infilati quasi di peso nell’automezzo, il paracadutista davanti, l’incursore alle sue spalle. Non fu un viaggio breve.

Nessuno si accorse della scomparsa del Pascià, sbalzato fuori forse nel superare un dosso. Ora lui era solo, disarmato, in mezzo a una strada sconosciuta: non gli rimaneva che incamminarsi nella direzione in cui si era allontanato l’«hummer». E sperare di non incontrare qualcuno, altrimenti quelli sarebbero stati i suoi passi d’addio. Lo ritrovarono più tardi. Quanto tempo era rimasto solo? Un’eternità.

Era finita, ed era finita bene. Li trasferirono verso Nassiriya, poi, nel più totale segreto, in aereo a Roma, all’ospedale militare del Celio, dove spalla e collo furono rimessi a posto. Infine, il ritorno a Pisa e Varignano, presso La Spezia. L’incubo si era finalmente dissolto anche per questi uomini che non esistono.

La Stampa

evelon
23-01-2006, 13:50
Se è vero massimo onore a quei due...però...se è tutto così segreto come è che si sà pure la marca del fuoristrada usato dagli agenti ?

sider
23-01-2006, 13:56
Se è tutto vero ...diciamo che fanno un mestiere parecchio rischioso.
Se li hanno beccati in quella maniera sono stati venduti..