Ewigen
30-10-2005, 13:16
Giappone: donne chiedono giustizia
30 ottobre 2005 - (ve/ai) “Mi portarono in Cina quando ero sedicenne. Le ragazze avevano dai 14 ai 17 anni. Ci costringevano a soddisfare 40 o 50 soldati al giorno. Era una cosa impossibile, così mi rifiutai e mi picchiarono. Se una di noi si rifiutava, le tagliavano la pelle col coltello. Alcune vennero pugnalate, altre morirono di malattie… È stata un’esperienza dolorosissima: c’era poco cibo, non riuscivamo a dormire e neanche eravamo in grado di suicidarci. Volevo scappare a tutti i costi…” (Lee Ok-sun, una donna sud-coreana di 79 anni. Fu sfruttata come schiava del sesso per i militari giapponesi in una “stazione di conforto” della città di Yanbian, nella Cina nordorientale. È rimasta in Cina per 58 anni prima di poter tornare in Corea del Sud).
“Vogliamo che quello che abbiamo sofferto sia scritto nei libri di storia affinché abbiamo giustizia e le prossime generazioni e la gente negli altri paesi sappiano cosa ci è successo. Il governo giapponese deve ammettere quello che i suoi soldati ci hanno fatto. Vogliamo le sue scuse e un risarcimento.”(Lola Pinar, Filippine).
“Voglio giustizia, non denaro. Voglio che il governo giapponese si scusi pubblicamente!”(Lola Amonita, Filippine).
Amnesty International ha chiesto al governo giapponese di ammettere la piena responsabilità per i crimini commessi contro le donne condannate alla schiavitù sessuale durante e dopo la II guerra mondiale. In un rapporto intitolato “Ancora in attesa dopo 60 anni: giustizia per le sopravvissute al sistema militare giapponese di schiavitù sessuale”, AI descrive le brutalità cui erano sottoposte le “donne di conforto” e denuncia i pretesti forniti dal Giappone nel corso degli anni per negare ogni responsabilità per la loro sofferenza.
Durante e dopo il conflitto, almeno 200.00 donne vennero ridotte in schiavitù sessuale dai militari giapponesi. Molte di esse avevano meno di 20 anni, alcune erano persino dodicenni. “Il Giappone deve porre fine a 60 anni di errori, fornendo piena riparazione alle sopravvissute a quell’orribile sistema di schiavitù sessuale”, ha dichiarato Purna Sen, direttore del programma Asia e Pacifico di Amnesty International.
Le sopravvissute al sistema delle “donne di conforto” sono ormai anziane mentre un imprecisato numero di vittime sono decedute senza ottenere giustizia, scuse adeguate o un risarcimento diretto. Per anni, il governo giapponese ha negato ogni responsabilità nei confronti del sistema di schiavitù sessuale e solo ultimamente, quando nuove prove hanno evidenziato il diretto ruolo del governo, le autorità hanno ammesso le proprie responsabilità.
Il negazionismo giapponese
“Donne di conforto” è un eufemismo per indicare giovani donne provenienti da Filippine, Thailandia, Vietnam, Malaysia, Corea del Sud, Paesi Bassi, Giappone, Indonesia, Corea del Nord e da altri paesi e regioni sotto occupazione giapponese, ridotte in schiavitù sessuale dai soldati giapponesi durante e dopo la II guerra mondiale.
Gli abusi avevano luogo nelle “stazioni di conforto” istituite dalle autorità giapponesi nei territori che venivano occupati. Nonostante si trattasse in tutta evidenza di un sistema di stupri istituzionalizzato, il tema delle “donne di conforto” fu ignorato dalla Corte marziale internazionale per l’Estremo oriente, istituita al termine della II guerra mondiale per processare i criminali di guerra giapponesi. L’unico organo giudiziario che se ne occupò fu la Corte marziale olandese in Indonesia, e solo per la riduzione in schiavitù sessuale di donne olandesi; gli analoghi crimini commessi contro le donne indonesiane rimasero impuniti.
Le autorità giapponesi hanno negato ogni responsabilità per il sistema delle “donne di conforto” fino a quando, nel 1992, il professor Yoshimi Yoshiaki ha svelato il ruolo diretto del governo. Da allora, Tokio ha offerto diverse scuse ufficiali, mai accettate dalle sopravvissute. A seguito delle campagne promosse da queste donne coraggiose e dai loro sostenitori e delle critiche internazionali, nel 1995 il governo ha introdotto il Fondo per le donne asiatiche. Questo istituto è tuttavia percepito dalle sopravvissute come un tentativo del governo di esonerarsi da ogni responsabilità legale nei loro confronti.
30 ottobre 2005 - (ve/ai) “Mi portarono in Cina quando ero sedicenne. Le ragazze avevano dai 14 ai 17 anni. Ci costringevano a soddisfare 40 o 50 soldati al giorno. Era una cosa impossibile, così mi rifiutai e mi picchiarono. Se una di noi si rifiutava, le tagliavano la pelle col coltello. Alcune vennero pugnalate, altre morirono di malattie… È stata un’esperienza dolorosissima: c’era poco cibo, non riuscivamo a dormire e neanche eravamo in grado di suicidarci. Volevo scappare a tutti i costi…” (Lee Ok-sun, una donna sud-coreana di 79 anni. Fu sfruttata come schiava del sesso per i militari giapponesi in una “stazione di conforto” della città di Yanbian, nella Cina nordorientale. È rimasta in Cina per 58 anni prima di poter tornare in Corea del Sud).
“Vogliamo che quello che abbiamo sofferto sia scritto nei libri di storia affinché abbiamo giustizia e le prossime generazioni e la gente negli altri paesi sappiano cosa ci è successo. Il governo giapponese deve ammettere quello che i suoi soldati ci hanno fatto. Vogliamo le sue scuse e un risarcimento.”(Lola Pinar, Filippine).
“Voglio giustizia, non denaro. Voglio che il governo giapponese si scusi pubblicamente!”(Lola Amonita, Filippine).
Amnesty International ha chiesto al governo giapponese di ammettere la piena responsabilità per i crimini commessi contro le donne condannate alla schiavitù sessuale durante e dopo la II guerra mondiale. In un rapporto intitolato “Ancora in attesa dopo 60 anni: giustizia per le sopravvissute al sistema militare giapponese di schiavitù sessuale”, AI descrive le brutalità cui erano sottoposte le “donne di conforto” e denuncia i pretesti forniti dal Giappone nel corso degli anni per negare ogni responsabilità per la loro sofferenza.
Durante e dopo il conflitto, almeno 200.00 donne vennero ridotte in schiavitù sessuale dai militari giapponesi. Molte di esse avevano meno di 20 anni, alcune erano persino dodicenni. “Il Giappone deve porre fine a 60 anni di errori, fornendo piena riparazione alle sopravvissute a quell’orribile sistema di schiavitù sessuale”, ha dichiarato Purna Sen, direttore del programma Asia e Pacifico di Amnesty International.
Le sopravvissute al sistema delle “donne di conforto” sono ormai anziane mentre un imprecisato numero di vittime sono decedute senza ottenere giustizia, scuse adeguate o un risarcimento diretto. Per anni, il governo giapponese ha negato ogni responsabilità nei confronti del sistema di schiavitù sessuale e solo ultimamente, quando nuove prove hanno evidenziato il diretto ruolo del governo, le autorità hanno ammesso le proprie responsabilità.
Il negazionismo giapponese
“Donne di conforto” è un eufemismo per indicare giovani donne provenienti da Filippine, Thailandia, Vietnam, Malaysia, Corea del Sud, Paesi Bassi, Giappone, Indonesia, Corea del Nord e da altri paesi e regioni sotto occupazione giapponese, ridotte in schiavitù sessuale dai soldati giapponesi durante e dopo la II guerra mondiale.
Gli abusi avevano luogo nelle “stazioni di conforto” istituite dalle autorità giapponesi nei territori che venivano occupati. Nonostante si trattasse in tutta evidenza di un sistema di stupri istituzionalizzato, il tema delle “donne di conforto” fu ignorato dalla Corte marziale internazionale per l’Estremo oriente, istituita al termine della II guerra mondiale per processare i criminali di guerra giapponesi. L’unico organo giudiziario che se ne occupò fu la Corte marziale olandese in Indonesia, e solo per la riduzione in schiavitù sessuale di donne olandesi; gli analoghi crimini commessi contro le donne indonesiane rimasero impuniti.
Le autorità giapponesi hanno negato ogni responsabilità per il sistema delle “donne di conforto” fino a quando, nel 1992, il professor Yoshimi Yoshiaki ha svelato il ruolo diretto del governo. Da allora, Tokio ha offerto diverse scuse ufficiali, mai accettate dalle sopravvissute. A seguito delle campagne promosse da queste donne coraggiose e dai loro sostenitori e delle critiche internazionali, nel 1995 il governo ha introdotto il Fondo per le donne asiatiche. Questo istituto è tuttavia percepito dalle sopravvissute come un tentativo del governo di esonerarsi da ogni responsabilità legale nei loro confronti.