Lucio Virzì
12-10-2005, 16:21
Penso se ne discuterà molto...
http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/spettacoli_e_cultura/filmkami/filmkami/filmkami.html
Presentato a Roma "Paradise now" di Hany Abu-Assad, storia
a tutta suspence che mostra le motivazioni del terrorista suicida
Le ultime 24 ore di un kamikaze
nel film-choc made in Palestina
La pellicola corre agli Oscar per uno Stato che ancora non c'è
Il regista: "Felice di correre per una causa e non per un paese"
di CLAUDIA MORGOGLIONE
Una scena di Paradise now
ROMA - Cosa può creare maggiore suspence, su grande schermo, di una bomba umana pronta a esplodere? Di un kamikaze che vaga da un posto all'altro per 24 ore, indeciso su se farsi o meno esplodere? E' questo il motivo, diciamo così, hitchicockiano, che ha spinto il regista palestinese Hany Abu-Assad a scrivere e girare Paradise now: un film destinato a far discutere, che mostra pensieri e azioni di un attentatore suicida.
Una storia forte, raccontata con stile realistico, che secondo l'autore dovrebbe essere giudicata con parametri esclusivamente cinematografici. Ma che, inevitabilmente, porta a quesiti di carattere politico. Perché affronta direttamente uno dei cuori del problema contemporeaneo, quello della figura del kamikaze. Perché è ambientato nel luogo di una tragedia che sembra irrisolvibile, quella mediorientale.
Perché non prende affatto posizione contro la guerra a Israele condotta attraverso le bombe umane: nella pellicola tutte le opinioni sul modo di fermare l'occupazione vengono espresse, e tutte - pacifiste o violente che siano - vengono presentare con uguale dignità. Anzi, forse le ragioni più forti sembrano essere quelle dell'attentatore suicida, protagonista di un monologo molto intenso nella penultima scena del film.
In ogni caso, un'opera controversa. E che arriva nelle sale italiane dal prossimo 15 ottobre, con distribuzione Lucky Red e il patrocinio di Amnesty International (che gli ha anche assegnato un premio, allo scorso Festival di Berlino). Al centro della vicenda ci sono due ragazzi cisgiordani come tanti altri, poveri, molto legati reciprocamente: Said e Khaled, impiegati in un'autofficina. Ma un giorno i due vengono convocati da un dirigente di un'organizzazione terroristica locale, che comunica loro che il grande momento è arrivato: la mattina successiva dovranno raggiungere Israele con una bomba addosso, e lì farsi esplodere. Khaled sembra entusiasta, Said più titubante: anche perché ha conosciuto una ragazza, attivista dei diritti umani, convinta dell'orrore e dell'inutilità della strategia kamikaze.
Il giorno successivo, al momento di passare in Israele, qualcosa va storto: Khaled torna indietro, di Said non c'è più traccia. Alla fine, però, dopo ore intense e drammatiche, i due compiranno scelte diverse. Con il vero protagonista ormai deciso a riscattare l'ombra di tradimento che grava sulla sua famiglia, col padre ucciso per collaborazionismo.
"Ho deciso di fare questo film - racconta il regista, a Roma per presentare la pellicola - perché volevo girare un thriller, un prodotto di genere, ma in un contesto realistico, in luogo e tempo reale. Cosa che in Europa sarebbe inpossibile: in Palestina no, lì la tensione, la suspence, ci sono davvero. E poi credo che si tratti di una storia importante da raccontare". Quanto all'inevitabile messaggio politico del film, Abu-Assad le spiega così: "Personalmente, io sono contrario alla violenza. Ma il film è qualcosa di più complesso della mia opinione: ciascun personaggio ha la sua, ed entra in conflitto con se stesso e con gli altri". Insomma, sul grande schermo, tutte le opzioni - dalla più morbida alla più estrema - sono viste come possibili.
E poi c'è la questione di chi ha la maggiore responsabilità, nell'exploit del terrorismo suicida in Medio Oriente. Su questo, l'autore di Paradise now non ha dubbi: a suo giudizio la colpa è tutta e solo di Israele. "Sono loro a occupare la nostra terra, sono loro che hanno la responsabilità della gente che vive nei suoi confini. Finché non si arriverà a dare gli stessi diritti ai palestinesi queste cose come quattordicenne pronti a diventare kamkaze succederanno ancora".
E così, in base a questo convincimento del regista, nel film non vediamo alcuni elementi deteriori della vita palestinese, come la gestione mafiosa del territorio e delle persone a opera di organizzazioni integraliste come Hamas. Una "omissione" voluta, come conferma Abu-Assad: "Quando saremo davvero una nazione libera e indipendente, allora parlerò anche della parte insana della nostra società. Adesso la responsabilità, come ho già detto, è di Israele".
Forse è anche per questo che le organizzazioni estremiste non hanno interferito con la lavorazione del film: "Solo un piccolo gruppo palestinese era contrario - racconta il regista - ma quasi tutti i movimenti che lottano per la liberazione ci hanno appoggiato. Pur sapendo che io la penso diversamente da loro. I maggiori problemi ce li hanno dato gli occupanti: basta pensare che durante le riprese un missile israeliano è caduto molto vicino a dove giravamo".
Il risultato è una pellicola che rappresenterà la Palestina, nella corsa agli Oscar, nella categoria di migliore opera straniera. Una particolarità non da poco: è il terzo anno consecutivo che questa "nazione che non c'è" ha il diritto di concorrere alla mitica statuetta, malgrado non abbia ancora raggiunto una piena indipendenza. "Per me è un grande onore - conclude Abu-Assad - correre per una causa e non per uno Stato".
(12 ottobre 2005)
LuVi
http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/spettacoli_e_cultura/filmkami/filmkami/filmkami.html
Presentato a Roma "Paradise now" di Hany Abu-Assad, storia
a tutta suspence che mostra le motivazioni del terrorista suicida
Le ultime 24 ore di un kamikaze
nel film-choc made in Palestina
La pellicola corre agli Oscar per uno Stato che ancora non c'è
Il regista: "Felice di correre per una causa e non per un paese"
di CLAUDIA MORGOGLIONE
Una scena di Paradise now
ROMA - Cosa può creare maggiore suspence, su grande schermo, di una bomba umana pronta a esplodere? Di un kamikaze che vaga da un posto all'altro per 24 ore, indeciso su se farsi o meno esplodere? E' questo il motivo, diciamo così, hitchicockiano, che ha spinto il regista palestinese Hany Abu-Assad a scrivere e girare Paradise now: un film destinato a far discutere, che mostra pensieri e azioni di un attentatore suicida.
Una storia forte, raccontata con stile realistico, che secondo l'autore dovrebbe essere giudicata con parametri esclusivamente cinematografici. Ma che, inevitabilmente, porta a quesiti di carattere politico. Perché affronta direttamente uno dei cuori del problema contemporeaneo, quello della figura del kamikaze. Perché è ambientato nel luogo di una tragedia che sembra irrisolvibile, quella mediorientale.
Perché non prende affatto posizione contro la guerra a Israele condotta attraverso le bombe umane: nella pellicola tutte le opinioni sul modo di fermare l'occupazione vengono espresse, e tutte - pacifiste o violente che siano - vengono presentare con uguale dignità. Anzi, forse le ragioni più forti sembrano essere quelle dell'attentatore suicida, protagonista di un monologo molto intenso nella penultima scena del film.
In ogni caso, un'opera controversa. E che arriva nelle sale italiane dal prossimo 15 ottobre, con distribuzione Lucky Red e il patrocinio di Amnesty International (che gli ha anche assegnato un premio, allo scorso Festival di Berlino). Al centro della vicenda ci sono due ragazzi cisgiordani come tanti altri, poveri, molto legati reciprocamente: Said e Khaled, impiegati in un'autofficina. Ma un giorno i due vengono convocati da un dirigente di un'organizzazione terroristica locale, che comunica loro che il grande momento è arrivato: la mattina successiva dovranno raggiungere Israele con una bomba addosso, e lì farsi esplodere. Khaled sembra entusiasta, Said più titubante: anche perché ha conosciuto una ragazza, attivista dei diritti umani, convinta dell'orrore e dell'inutilità della strategia kamikaze.
Il giorno successivo, al momento di passare in Israele, qualcosa va storto: Khaled torna indietro, di Said non c'è più traccia. Alla fine, però, dopo ore intense e drammatiche, i due compiranno scelte diverse. Con il vero protagonista ormai deciso a riscattare l'ombra di tradimento che grava sulla sua famiglia, col padre ucciso per collaborazionismo.
"Ho deciso di fare questo film - racconta il regista, a Roma per presentare la pellicola - perché volevo girare un thriller, un prodotto di genere, ma in un contesto realistico, in luogo e tempo reale. Cosa che in Europa sarebbe inpossibile: in Palestina no, lì la tensione, la suspence, ci sono davvero. E poi credo che si tratti di una storia importante da raccontare". Quanto all'inevitabile messaggio politico del film, Abu-Assad le spiega così: "Personalmente, io sono contrario alla violenza. Ma il film è qualcosa di più complesso della mia opinione: ciascun personaggio ha la sua, ed entra in conflitto con se stesso e con gli altri". Insomma, sul grande schermo, tutte le opzioni - dalla più morbida alla più estrema - sono viste come possibili.
E poi c'è la questione di chi ha la maggiore responsabilità, nell'exploit del terrorismo suicida in Medio Oriente. Su questo, l'autore di Paradise now non ha dubbi: a suo giudizio la colpa è tutta e solo di Israele. "Sono loro a occupare la nostra terra, sono loro che hanno la responsabilità della gente che vive nei suoi confini. Finché non si arriverà a dare gli stessi diritti ai palestinesi queste cose come quattordicenne pronti a diventare kamkaze succederanno ancora".
E così, in base a questo convincimento del regista, nel film non vediamo alcuni elementi deteriori della vita palestinese, come la gestione mafiosa del territorio e delle persone a opera di organizzazioni integraliste come Hamas. Una "omissione" voluta, come conferma Abu-Assad: "Quando saremo davvero una nazione libera e indipendente, allora parlerò anche della parte insana della nostra società. Adesso la responsabilità, come ho già detto, è di Israele".
Forse è anche per questo che le organizzazioni estremiste non hanno interferito con la lavorazione del film: "Solo un piccolo gruppo palestinese era contrario - racconta il regista - ma quasi tutti i movimenti che lottano per la liberazione ci hanno appoggiato. Pur sapendo che io la penso diversamente da loro. I maggiori problemi ce li hanno dato gli occupanti: basta pensare che durante le riprese un missile israeliano è caduto molto vicino a dove giravamo".
Il risultato è una pellicola che rappresenterà la Palestina, nella corsa agli Oscar, nella categoria di migliore opera straniera. Una particolarità non da poco: è il terzo anno consecutivo che questa "nazione che non c'è" ha il diritto di concorrere alla mitica statuetta, malgrado non abbia ancora raggiunto una piena indipendenza. "Per me è un grande onore - conclude Abu-Assad - correre per una causa e non per uno Stato".
(12 ottobre 2005)
LuVi