Adric
03-10-2005, 15:40
Trovare lavoro? E’ un affare di famiglia
Sei giovani su 10 aiutati da genitori e amici. Ferrarotti: mercato poco trasparente
di ANNA MARIA SERSALE
ROMA - A cercare il lavoro ci pensano mamma e papà. O al più i loro amici. In Italia la famiglia, sognando il lavoro che non c’è, è il principale soggetto che si attiva per garantire sbocchi professionali che sembrano sempre più rari. Genitori e parenti vanno a caccia di occupazione attraverso una rete di contatti informali. Occupazione sempre più difficile e precaria, ma pur sempre occupazione. Per l’incontro tra domanda e offerta in altri Paesi si sono consolidati canali più trasparenti. Da noi, invece, per ottenere un posto di lavoro ci si affida a una sorta di tam-tam. I Centri pubblici per l’impiego in Italia funzionano prevalentemente per i lavori di manovalanza, mentre i canali di approdo alle posizioni di medio e alto livello, in almeno 6 casi su 10, sono costituiti dai “privati”. Come reagiscono le aziende? Per loro vale ancora il «principio della presunta affidabilità» di chi viene segnalato. Un sistema medievale, questo, che spinge giovani preparati e intraprendenti a cercare fortuna all’estero. Eh sì, perché il fenomeno, pur presente in altri Paesi, solo da noi raggiunge punte così elevate.
Rileva il Censis che la «rete familiare, fatta di genitori, fratelli, sorelle e altri parenti, nel 29,7% dei casi» è il punto di contatto tra il datore di lavoro e il neo-assunto. A ciò si aggiunge la rete amicale, fatta di amici intimi e conoscenti, con un suo 33,1%. Solo il 20% usa canali istituzionali.
Ma nel mercato del lavoro qualche segnale di miglioramento c’è. Nel secondo trimestre del 2005, rileva l’Istat, l’offerta di lavoro è aumentata, rispetto allo stesso periodo del 2004, dello 0,5%. Il che, tradotto in cifre assolute, equivale a +127.000 posti di lavoro. Però una considerazione è d’obbligo: dopo anni di stagnazione è una goccia nel mare. In Italia, infatti, il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 22,9% (dati del 2005 contenuti nell’ultima rilevazione sulle forze lavoro).
Dice la ricercatrice del Censis Ester Dini: «I giovani italiani continuano ad essere uno dei segmenti più penalizzati del mercato del lavoro. Assieme alla Grecia siamo il fanalino di coda. E non risulta più confortante il confronto con altre realtà. Tra i Paesi Ocse solo Polonia e Repubblica Slovacca presentano una condizione giovanile decisamente peggiore» con tassi di disoccupazione rispettivamente del 41% e 39,1%.
Quanto alla ricerca del lavoro affidata ai parenti solo la Spagna ci tiene buona compagnia. «E’ vero - osserva il sociologo Franco Ferrarotti - i centri pubblici di collocamento non hanno funzionato. Chi non trova lavoro se la prende con se stesso, poi con la famiglia, poi con la società. Depressione e scoraggiamento sono molto diffusi. Ci sono giovani che spediscono montagne di curriculum ovunque però non ricevono risposta. Ci si appoggia alla raccomandazione, mentre ci sarebbe bisogno di meccanismi certi e trasparenti».
«La verità - continua Ferrarotti - è che la nostra società, ricca e progredita, “divora” i propri figli: non dà spazi nè prospettive. Perciò sono pessimista. I ragazzi, se non ci saranno inversioni di tendenza, sono condannati al precariato, con conseguenze disastrose: dalla mancanza di progetti di vita all’impossibilità di avere un mutuo per l’acquisto della casa. Infatti, le banche agli atipici, ai precari, concedono mutui con condizioni capestro. Alla prima rata che salta si rischia di perdere tutto. Certo, prima le assunzioni erano tutte a tempo indeterminato: quando si faceva il contratto ad una persona era un po’ come sposarla. Ora assistiamo all’opposto. La precarizzazione selvaggia. Perché gli strumenti per rendere più fluido il mercato, come nel caso della legge Biagi, sono stati usati male. Risultato: si spezzano le vite di tanti individui, con il rischio di far crescere la collera sociale».
(1 - continua)
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L’ANALISI
Un milione e 300 mila non studia e non ha un’occupazione
La Francia sta poco meglio di noi: sono 800 mila i ragazzi in attesa di impiego. Un costo enorme per la collettività
di ANTONIO GOLINI
UN MILIONE e trecentomila giovani in Italia non studiano, né lavorano. Questo è il dato, per molti versi sconcertante, reso noto per la prima volta a Parigi in un Seminario di studio e lavoro organizzato congiuntamente dal ministero del Lavoro francese e da quello italiano. Questo mare di giovani di età compresa fra i 15 e i 30 anni è ovviamente fonte di attenzione e preoccupazione da parte italiana; ma non minori sono quelle francesi avendo essi stimato in ottocentomila i loro giovani in difficoltà, da prendere per mano e da accompagnare verso un lavoro soddisfacente e duraturo. Si tratta in entrambi i casi di mettere in piedi una complessa strategia di coesione sociale che costituisca il cuore di una dura battaglia per il lavoro, una merce che sta diventando più che mai preziosa in tutto il mondo, e qualche volta anche rara.
Per quanto riguarda l’Italia le cifre - frutto di indagini Istat e di una elaborazione congiunta con l’agenzia Italia-Lavoro - vanno interpretate. In primo luogo c’è considerare che molti (30-40 per cento?) di quel milione e trecentomila lavorano nel sommerso e per questo preferiscono occultarsi in occasione di una rilevazione statistica ufficiale. In secondo luogo molti di quelli che si trovano nella situazione di non lavoro e non studio hanno alle spalle famiglie, di tutte le classi sociali, che consentono loro di rimanere in un tale limbo, ma che altresì consentono loro di sopravvivere adeguatamente; dovesse ridursi la capacità delle famiglie di mantenerli, molti dei giovani dovrebbero accettare comunque un lavoro. In tutti i casi però sono l’espressione di un disagio sociale che rischia di autoalimentarsi in un circolo vizioso che trova i suoi elementi dinamici da un lato nella difficoltà dell’economia a creare sufficienti posti di lavoro e dall’altro nello scoraggiamento che essa crea agli aspiranti al lavoro che rinunciano quindi a cercarne uno. Si diffondono tra i giovani - e nelle loro famiglie - disillusione e frustrazione che assumono i caratteri di una epidemia sociale e che costano cifre immerse alla collettività per la mancata produzione di beni e servizi, per i mancati introiti di tasse e contributi, per i sussidi e i sostegni da dare ai giovani senza occupazione.
L’incontro di Parigi serve a entrambi gli interlocutori, alla ricerca delle migliori pratiche da studiare, confrontare e mettere in atto. La Francia è particolarmente interessata al decentramento amministrativo delle politiche di istruzione professionale e di politiche attive per il lavoro, ai contenuti e agli effetti della cosiddetta legge Biagi, fra cui le nuove forme di apprendistato che consentono ai giovani di effettuare, anche stando in azienda, un’alta formazione che li conduca alla laurea o al dottorato; interessata anche ai recenti provvedimenti della legge Moratti, che tra mille difficoltà rende un diritto/dovere l’istruzione e la formazione fra i 15 e i 18 anni. Da parte nostra l’attenzione è stata attirata dall’importante, oneroso e articolato programma francese di inserzione professionale e sociale dei giovani che, per perseguire l’obiettivo di ridurre del 15% la disoccupazione giovanile, solo nel 2005 ha ottenuto 263 milioni addizionali di euro.
Certamente questi incontri bilaterali sono utilissimi per confrontare idee ed esperienze e per attuare nel proprio paese le migliori pratiche che hanno avuto successo in un altro paese; essi servono quindi anche ad armonizzare le politiche sociali e, in una prospettiva di lungo periodo, a costruire una Europa sociale, necessario corollario (o premessa?) di una Europa politica. Ma alla base di tutto, in primo luogo in Italia ma anche in Francia così come nel resto d’Europa, c’è il problema dello sviluppo economico e la necessità di ritrovare per esso dinamicità e crescita.
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L’INTERVISTA
«Cina e India faranno concorrenza ai nostri laureati»
Il sociologo De Masi: puntare di più su ingegneria e sui settori scientifici, questi paesi ci hanno già superati
ROMA - De Masi, la famiglia cerca lavoro. Sembra una battuta, invece non lo è. La maggioranza dei giovani trova occupazione per intercessione di mamme, zii, nonni. Siamo nell’Italietta di mezzo secolo fa?
«Non mi stupirei troppo, succede in tutto il mondo. Forse non è questa la cosa più grave. Certo, ci vorrebbero centri pubblici funzionanti. Ma la cosa di cui preoccuparsi di più è un’altra». La risposta è del sociologo del lavoro Domenico De Masi.
Può spiegare?
«Ci sono Paesi emergenti che ci hanno già superati. Vogliamo fare qualche confronto? La Cina sforna 400.000 ingegneri l’anno. Noi, in totale, tra tutte le facoltà abbiamo appena 150.000 laureati l’anno. La distanza è abissale. Ma non è solo un problema di numeri. Cina e India ci hanno sorpassato anche sul piano della qualità, della preparazione. Le loro università funzionano meglio delle nostre».
Che fare?
«Puntare sul settore scientifico, cercando di guadagnare il terreno perduto. In ogni caso il problema non è solo nostro. Basti pensare che negli Usa, in università come quelle di Santa Barbara o di San Diego, la presenza degli stranieri che andavano lì per motivi di studio è crollata del 48%. Lo dico da anni, abbiamo lasciato sguarniti settori vitali e prioritari, infilandoci in un vicolo cieco».
Quali sono le conseguenze?
«I Paesi sono di tre tipi: quelli che producono idee, quelli che producono beni materiali e quelli che non producono niente. Ebbene, noi appartenevamo alla prima fascia. Ora non più, perché abbiamo perduto questo primato. Le nostre università, che erano la fabbrica delle idee, sono prive dei fondi necessari alla ricerca».
Il lavoro dei giovani?
«Sempre più difficile. In ogni caso, se ci riferiamo ai laureati, l’Italia non li ha mai premiati. Ora le statistiche dicono che i neo-dottori trovano più occupazione, ma solo perché fanno i lavori che un tempo avrebbero fatto quelli con la terza media. Penso ai Call-center, dove moltissime persone hanno la laurea».
A. Ser.
(Il Messaggero.it)
Sei giovani su 10 aiutati da genitori e amici. Ferrarotti: mercato poco trasparente
di ANNA MARIA SERSALE
ROMA - A cercare il lavoro ci pensano mamma e papà. O al più i loro amici. In Italia la famiglia, sognando il lavoro che non c’è, è il principale soggetto che si attiva per garantire sbocchi professionali che sembrano sempre più rari. Genitori e parenti vanno a caccia di occupazione attraverso una rete di contatti informali. Occupazione sempre più difficile e precaria, ma pur sempre occupazione. Per l’incontro tra domanda e offerta in altri Paesi si sono consolidati canali più trasparenti. Da noi, invece, per ottenere un posto di lavoro ci si affida a una sorta di tam-tam. I Centri pubblici per l’impiego in Italia funzionano prevalentemente per i lavori di manovalanza, mentre i canali di approdo alle posizioni di medio e alto livello, in almeno 6 casi su 10, sono costituiti dai “privati”. Come reagiscono le aziende? Per loro vale ancora il «principio della presunta affidabilità» di chi viene segnalato. Un sistema medievale, questo, che spinge giovani preparati e intraprendenti a cercare fortuna all’estero. Eh sì, perché il fenomeno, pur presente in altri Paesi, solo da noi raggiunge punte così elevate.
Rileva il Censis che la «rete familiare, fatta di genitori, fratelli, sorelle e altri parenti, nel 29,7% dei casi» è il punto di contatto tra il datore di lavoro e il neo-assunto. A ciò si aggiunge la rete amicale, fatta di amici intimi e conoscenti, con un suo 33,1%. Solo il 20% usa canali istituzionali.
Ma nel mercato del lavoro qualche segnale di miglioramento c’è. Nel secondo trimestre del 2005, rileva l’Istat, l’offerta di lavoro è aumentata, rispetto allo stesso periodo del 2004, dello 0,5%. Il che, tradotto in cifre assolute, equivale a +127.000 posti di lavoro. Però una considerazione è d’obbligo: dopo anni di stagnazione è una goccia nel mare. In Italia, infatti, il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 22,9% (dati del 2005 contenuti nell’ultima rilevazione sulle forze lavoro).
Dice la ricercatrice del Censis Ester Dini: «I giovani italiani continuano ad essere uno dei segmenti più penalizzati del mercato del lavoro. Assieme alla Grecia siamo il fanalino di coda. E non risulta più confortante il confronto con altre realtà. Tra i Paesi Ocse solo Polonia e Repubblica Slovacca presentano una condizione giovanile decisamente peggiore» con tassi di disoccupazione rispettivamente del 41% e 39,1%.
Quanto alla ricerca del lavoro affidata ai parenti solo la Spagna ci tiene buona compagnia. «E’ vero - osserva il sociologo Franco Ferrarotti - i centri pubblici di collocamento non hanno funzionato. Chi non trova lavoro se la prende con se stesso, poi con la famiglia, poi con la società. Depressione e scoraggiamento sono molto diffusi. Ci sono giovani che spediscono montagne di curriculum ovunque però non ricevono risposta. Ci si appoggia alla raccomandazione, mentre ci sarebbe bisogno di meccanismi certi e trasparenti».
«La verità - continua Ferrarotti - è che la nostra società, ricca e progredita, “divora” i propri figli: non dà spazi nè prospettive. Perciò sono pessimista. I ragazzi, se non ci saranno inversioni di tendenza, sono condannati al precariato, con conseguenze disastrose: dalla mancanza di progetti di vita all’impossibilità di avere un mutuo per l’acquisto della casa. Infatti, le banche agli atipici, ai precari, concedono mutui con condizioni capestro. Alla prima rata che salta si rischia di perdere tutto. Certo, prima le assunzioni erano tutte a tempo indeterminato: quando si faceva il contratto ad una persona era un po’ come sposarla. Ora assistiamo all’opposto. La precarizzazione selvaggia. Perché gli strumenti per rendere più fluido il mercato, come nel caso della legge Biagi, sono stati usati male. Risultato: si spezzano le vite di tanti individui, con il rischio di far crescere la collera sociale».
(1 - continua)
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L’ANALISI
Un milione e 300 mila non studia e non ha un’occupazione
La Francia sta poco meglio di noi: sono 800 mila i ragazzi in attesa di impiego. Un costo enorme per la collettività
di ANTONIO GOLINI
UN MILIONE e trecentomila giovani in Italia non studiano, né lavorano. Questo è il dato, per molti versi sconcertante, reso noto per la prima volta a Parigi in un Seminario di studio e lavoro organizzato congiuntamente dal ministero del Lavoro francese e da quello italiano. Questo mare di giovani di età compresa fra i 15 e i 30 anni è ovviamente fonte di attenzione e preoccupazione da parte italiana; ma non minori sono quelle francesi avendo essi stimato in ottocentomila i loro giovani in difficoltà, da prendere per mano e da accompagnare verso un lavoro soddisfacente e duraturo. Si tratta in entrambi i casi di mettere in piedi una complessa strategia di coesione sociale che costituisca il cuore di una dura battaglia per il lavoro, una merce che sta diventando più che mai preziosa in tutto il mondo, e qualche volta anche rara.
Per quanto riguarda l’Italia le cifre - frutto di indagini Istat e di una elaborazione congiunta con l’agenzia Italia-Lavoro - vanno interpretate. In primo luogo c’è considerare che molti (30-40 per cento?) di quel milione e trecentomila lavorano nel sommerso e per questo preferiscono occultarsi in occasione di una rilevazione statistica ufficiale. In secondo luogo molti di quelli che si trovano nella situazione di non lavoro e non studio hanno alle spalle famiglie, di tutte le classi sociali, che consentono loro di rimanere in un tale limbo, ma che altresì consentono loro di sopravvivere adeguatamente; dovesse ridursi la capacità delle famiglie di mantenerli, molti dei giovani dovrebbero accettare comunque un lavoro. In tutti i casi però sono l’espressione di un disagio sociale che rischia di autoalimentarsi in un circolo vizioso che trova i suoi elementi dinamici da un lato nella difficoltà dell’economia a creare sufficienti posti di lavoro e dall’altro nello scoraggiamento che essa crea agli aspiranti al lavoro che rinunciano quindi a cercarne uno. Si diffondono tra i giovani - e nelle loro famiglie - disillusione e frustrazione che assumono i caratteri di una epidemia sociale e che costano cifre immerse alla collettività per la mancata produzione di beni e servizi, per i mancati introiti di tasse e contributi, per i sussidi e i sostegni da dare ai giovani senza occupazione.
L’incontro di Parigi serve a entrambi gli interlocutori, alla ricerca delle migliori pratiche da studiare, confrontare e mettere in atto. La Francia è particolarmente interessata al decentramento amministrativo delle politiche di istruzione professionale e di politiche attive per il lavoro, ai contenuti e agli effetti della cosiddetta legge Biagi, fra cui le nuove forme di apprendistato che consentono ai giovani di effettuare, anche stando in azienda, un’alta formazione che li conduca alla laurea o al dottorato; interessata anche ai recenti provvedimenti della legge Moratti, che tra mille difficoltà rende un diritto/dovere l’istruzione e la formazione fra i 15 e i 18 anni. Da parte nostra l’attenzione è stata attirata dall’importante, oneroso e articolato programma francese di inserzione professionale e sociale dei giovani che, per perseguire l’obiettivo di ridurre del 15% la disoccupazione giovanile, solo nel 2005 ha ottenuto 263 milioni addizionali di euro.
Certamente questi incontri bilaterali sono utilissimi per confrontare idee ed esperienze e per attuare nel proprio paese le migliori pratiche che hanno avuto successo in un altro paese; essi servono quindi anche ad armonizzare le politiche sociali e, in una prospettiva di lungo periodo, a costruire una Europa sociale, necessario corollario (o premessa?) di una Europa politica. Ma alla base di tutto, in primo luogo in Italia ma anche in Francia così come nel resto d’Europa, c’è il problema dello sviluppo economico e la necessità di ritrovare per esso dinamicità e crescita.
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L’INTERVISTA
«Cina e India faranno concorrenza ai nostri laureati»
Il sociologo De Masi: puntare di più su ingegneria e sui settori scientifici, questi paesi ci hanno già superati
ROMA - De Masi, la famiglia cerca lavoro. Sembra una battuta, invece non lo è. La maggioranza dei giovani trova occupazione per intercessione di mamme, zii, nonni. Siamo nell’Italietta di mezzo secolo fa?
«Non mi stupirei troppo, succede in tutto il mondo. Forse non è questa la cosa più grave. Certo, ci vorrebbero centri pubblici funzionanti. Ma la cosa di cui preoccuparsi di più è un’altra». La risposta è del sociologo del lavoro Domenico De Masi.
Può spiegare?
«Ci sono Paesi emergenti che ci hanno già superati. Vogliamo fare qualche confronto? La Cina sforna 400.000 ingegneri l’anno. Noi, in totale, tra tutte le facoltà abbiamo appena 150.000 laureati l’anno. La distanza è abissale. Ma non è solo un problema di numeri. Cina e India ci hanno sorpassato anche sul piano della qualità, della preparazione. Le loro università funzionano meglio delle nostre».
Che fare?
«Puntare sul settore scientifico, cercando di guadagnare il terreno perduto. In ogni caso il problema non è solo nostro. Basti pensare che negli Usa, in università come quelle di Santa Barbara o di San Diego, la presenza degli stranieri che andavano lì per motivi di studio è crollata del 48%. Lo dico da anni, abbiamo lasciato sguarniti settori vitali e prioritari, infilandoci in un vicolo cieco».
Quali sono le conseguenze?
«I Paesi sono di tre tipi: quelli che producono idee, quelli che producono beni materiali e quelli che non producono niente. Ebbene, noi appartenevamo alla prima fascia. Ora non più, perché abbiamo perduto questo primato. Le nostre università, che erano la fabbrica delle idee, sono prive dei fondi necessari alla ricerca».
Il lavoro dei giovani?
«Sempre più difficile. In ogni caso, se ci riferiamo ai laureati, l’Italia non li ha mai premiati. Ora le statistiche dicono che i neo-dottori trovano più occupazione, ma solo perché fanno i lavori che un tempo avrebbero fatto quelli con la terza media. Penso ai Call-center, dove moltissime persone hanno la laurea».
A. Ser.
(Il Messaggero.it)