Adric
19-09-2005, 20:23
La vera storia dei 179 lingotti del Venerabile: fu una “ricompensa” degli Alleati
di MASSIMO MARTINELLI
ROMA - Alla fine, Licio Gelli perderà il suo ”tesoro”. In un’aula grigia del tribunale di Roma, tra i volti anonimi di chi punta all’occasione a poco prezzo e la polvere dei faldoni giudiziari, gli sfileranno di mano il suo forziere: 165 chili d’oro sotto forma di lingotti. 179 per la precisione, di forma e peso diverso. Che andranno all’asta al prezzo corrente del nobile metallo. Anche se hanno il valore di qualcosa che viene da un passato remotissimo e romantico, mai raccontato fino in fondo.
Il Tribunale di Roma organizza l’asta giudiziaria per domani mattina; vuole risarcire il fisco italiano, che vanta un credito di vecchi tributi, e i piccoli azionisti del Banco Ambrosiano. Poi ci sono gli ex pm milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che nel maggio dell’81 scoprirono le liste segrete della Loggia Propaganda 2 e le consegnarono nelle mani dell’allora capo del Governo, Arnaldo Forlani. Devono essere risarciti anche loro, perché subirono offese che un Tribunale ritenne che dovessero essere risarcite dallo stesso Gelli. Poca roba: qualche decina di migliaia di euro ciascuno, che i due magistrati doneranno alle vittime della Strage di Bologna e alle vedove della Plaza de Mayo, in Argentina. Ma le due toghe l’hanno inseguito con forza, questo risarcimento. E l’hanno ottenuto grazie alla caparbietà dell’avvocato Carlo d’Inzillo, consapevole del valore simbolico di questa asta giudiziaria che chiude la lunga storia di questo oro, cominciata alla fine della Seconda Guerra mondiale.
Le cautele sono d’obbligo, perché nessuno può confermarla con certezza la provenienza dei lingotti. Ma gli indizi sono tanti, a cominciare dalla marchiatura di quei mattoni gialli, resa nota solo di recente grazie alla perizia ufficiale del Tribunale di Roma. Almeno 24 lingotti sono timbrati con il marchio della CCCP, l’ex Urss; su altri c’è il logo della South Africa Rand Refinery, su altri ancora quello della SBS Swiss Bank e del Credit Suisse. Alcuni lingotti provengono addirittura dalla ditta Johnson Mattey di Londra, che gestiva miniere nell’Ottocento e ce ne sono alcuni marchiati Melter Assayer, che solitamente tratta oggetti di valore numismatico. E solo adesso che l’asta è alle porte, il passaparola dei collezionisti rivela un retroscena da spy story di altri tempi: quell’oro, racconta un appassionato che parteciperà all’asta, non sarebbe altro che la ricompensa che gli Alleati riconobbero al Venerabile alla fine della Seconda guerra mondiale per una serie di servigi resi. Erano i tempi in cui Licio Gelli indossava la divisa di ufficiale di collegamento italiano con il Comando Tedesco; ma poi aiutava la Resistenza, dava informazioni utili per gli Alleati, faceva il doppio gioco. Si racconta che lo fece anche quando le truppe di Hitler entrarono in Montenegro e svuotarono il caveau della Banca Centrale del paese. Prelevarono tanto di quell’oro che per portarlo a Berlino fu organizzato un convoglio navale. Gelli lo seppe, naturalmente. E l’informazione arrivò agli Alleati, che intercettarono il convoglio e presero il carico. E alla fine della guerra, lo ricompensarono proprio con parte di quell’oro, diviso in lingotti da un kg e rimarchiato dalle banche dei paesi alleati: quella svizzera per gli occidentali e quella di Mosca per i russi.
Nessuno la conferma ufficialmente, questa operazione di pirateria internazionale in tempo di guerra, per ovvie ragioni diplomatiche. Ma forse non è un caso che nei giorni scorsi il quotidiano di Belgrado, Blic, abbia pubblicato una ricostruzione molto simile, sostenendo che quei lingotti sarebbero parte del tesoro della corona serba del quale lo stesso Gelli, qualificatosi come un ufficiale italiano, si sarebbe impossessato in Montenegro durante la guerra.
Dal canto suo, l’ex capo della P2 non ha parlato molto di quell’oro, che nascose per decine di anni nelle fioriere della sua Villa Wanda, ad Arezzo. L’unica cosa certa è che quel tesoro gli appartiene: «Un’inchiesta della Procura di Roma ha accertato che il grande patrimonio di Licio Gelli non è frutto di attività illecite», dice Michele Gentiloni Silverj, avvocato storico dell’ex capo della P2. In effetti, il patrimonio era notevole: al 18 agosto ’82 la Finanza accertò che il Venerabile possedeva 139 milioni di dollari Usa, 13 miliardi di lire e i 165 chili d’oro che sono destinati all’asta di domani. Come li mise da parte? Risponde Gentiloni Silverj: «Quei soldi sono il frutto delle vendite di immense proprietà che Gelli aveva in Argentina». Sui miliardi nessuna obiezione; ma possibile che qualcuno pagò le fazende di Gelli con lingotti dell’ex Urss? «Sui lingotti è sempre rimasto un certo mistero» sorride Gentiloni Silverj.
(Il Messaggero)
di MASSIMO MARTINELLI
ROMA - Alla fine, Licio Gelli perderà il suo ”tesoro”. In un’aula grigia del tribunale di Roma, tra i volti anonimi di chi punta all’occasione a poco prezzo e la polvere dei faldoni giudiziari, gli sfileranno di mano il suo forziere: 165 chili d’oro sotto forma di lingotti. 179 per la precisione, di forma e peso diverso. Che andranno all’asta al prezzo corrente del nobile metallo. Anche se hanno il valore di qualcosa che viene da un passato remotissimo e romantico, mai raccontato fino in fondo.
Il Tribunale di Roma organizza l’asta giudiziaria per domani mattina; vuole risarcire il fisco italiano, che vanta un credito di vecchi tributi, e i piccoli azionisti del Banco Ambrosiano. Poi ci sono gli ex pm milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che nel maggio dell’81 scoprirono le liste segrete della Loggia Propaganda 2 e le consegnarono nelle mani dell’allora capo del Governo, Arnaldo Forlani. Devono essere risarciti anche loro, perché subirono offese che un Tribunale ritenne che dovessero essere risarcite dallo stesso Gelli. Poca roba: qualche decina di migliaia di euro ciascuno, che i due magistrati doneranno alle vittime della Strage di Bologna e alle vedove della Plaza de Mayo, in Argentina. Ma le due toghe l’hanno inseguito con forza, questo risarcimento. E l’hanno ottenuto grazie alla caparbietà dell’avvocato Carlo d’Inzillo, consapevole del valore simbolico di questa asta giudiziaria che chiude la lunga storia di questo oro, cominciata alla fine della Seconda Guerra mondiale.
Le cautele sono d’obbligo, perché nessuno può confermarla con certezza la provenienza dei lingotti. Ma gli indizi sono tanti, a cominciare dalla marchiatura di quei mattoni gialli, resa nota solo di recente grazie alla perizia ufficiale del Tribunale di Roma. Almeno 24 lingotti sono timbrati con il marchio della CCCP, l’ex Urss; su altri c’è il logo della South Africa Rand Refinery, su altri ancora quello della SBS Swiss Bank e del Credit Suisse. Alcuni lingotti provengono addirittura dalla ditta Johnson Mattey di Londra, che gestiva miniere nell’Ottocento e ce ne sono alcuni marchiati Melter Assayer, che solitamente tratta oggetti di valore numismatico. E solo adesso che l’asta è alle porte, il passaparola dei collezionisti rivela un retroscena da spy story di altri tempi: quell’oro, racconta un appassionato che parteciperà all’asta, non sarebbe altro che la ricompensa che gli Alleati riconobbero al Venerabile alla fine della Seconda guerra mondiale per una serie di servigi resi. Erano i tempi in cui Licio Gelli indossava la divisa di ufficiale di collegamento italiano con il Comando Tedesco; ma poi aiutava la Resistenza, dava informazioni utili per gli Alleati, faceva il doppio gioco. Si racconta che lo fece anche quando le truppe di Hitler entrarono in Montenegro e svuotarono il caveau della Banca Centrale del paese. Prelevarono tanto di quell’oro che per portarlo a Berlino fu organizzato un convoglio navale. Gelli lo seppe, naturalmente. E l’informazione arrivò agli Alleati, che intercettarono il convoglio e presero il carico. E alla fine della guerra, lo ricompensarono proprio con parte di quell’oro, diviso in lingotti da un kg e rimarchiato dalle banche dei paesi alleati: quella svizzera per gli occidentali e quella di Mosca per i russi.
Nessuno la conferma ufficialmente, questa operazione di pirateria internazionale in tempo di guerra, per ovvie ragioni diplomatiche. Ma forse non è un caso che nei giorni scorsi il quotidiano di Belgrado, Blic, abbia pubblicato una ricostruzione molto simile, sostenendo che quei lingotti sarebbero parte del tesoro della corona serba del quale lo stesso Gelli, qualificatosi come un ufficiale italiano, si sarebbe impossessato in Montenegro durante la guerra.
Dal canto suo, l’ex capo della P2 non ha parlato molto di quell’oro, che nascose per decine di anni nelle fioriere della sua Villa Wanda, ad Arezzo. L’unica cosa certa è che quel tesoro gli appartiene: «Un’inchiesta della Procura di Roma ha accertato che il grande patrimonio di Licio Gelli non è frutto di attività illecite», dice Michele Gentiloni Silverj, avvocato storico dell’ex capo della P2. In effetti, il patrimonio era notevole: al 18 agosto ’82 la Finanza accertò che il Venerabile possedeva 139 milioni di dollari Usa, 13 miliardi di lire e i 165 chili d’oro che sono destinati all’asta di domani. Come li mise da parte? Risponde Gentiloni Silverj: «Quei soldi sono il frutto delle vendite di immense proprietà che Gelli aveva in Argentina». Sui miliardi nessuna obiezione; ma possibile che qualcuno pagò le fazende di Gelli con lingotti dell’ex Urss? «Sui lingotti è sempre rimasto un certo mistero» sorride Gentiloni Silverj.
(Il Messaggero)