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View Full Version : Rwanda, genocidio del 1994 e riflessi attuali


Adric
30-08-2005, 05:01
Il Governo rwandese sarebbe pronto, secondo quanto riportato da Allafrica.com, a rilasciare dalle prigioni già pesantemente congestionate 30.000 detenuti accusati del genocidio avvenuto nel 1994 in Rwanda. Il Presidente rwandese, il Maggiore Generale Paul Kagame, nel 2003 ha liberato circa 24.000 detenuti.

Libertà provvisoria non amnistia

Il Procuratore della Repubblica, Jean de Dieu Mucyo, ha detto che il rilascio dei 30.000 su 70.000 sospettati di aver preso parte al genocidio contribuirebbe ad accelerare i processi, ma avverte che i detenuti saranno rilasciati solo provvisoriamente e non sarebbe loro concessa l’amnistia, e dovranno comunque affrontare le corti locali note come “gacaca”.

Attualmente, 70.000 degli 87.000 detenuti sono accusati dei crimini connessi al genocidio, ma molti non sono mai stati messi sotto processo dal momento del loro arresto. Molti di questi detenuti sono malati o anziani, altri avevano meno di 18 anni al momento dell’arresto.

Il 90% dei detenuti che sta per essere rilasciato ha ammesso di aver giocato un ruolo chiave nel massacro, ma di non appartenere alla categoria dei pianificatori della strage dei livelli più alti.
Prima che i detenuti possano tornare a casa dovranno seguire per un mese un corso di formazione riguardo il problema della riconciliazione ed unità nazionale.

Molti sopravvissuti al genocidio dicono che i detenuti, per ottenere il rilascio, hanno dichiarato il falso circa i fatti compiuti. La violenza che è scaturita dalla morte dell’ultimo Presidente rwandese Juvenal Habyarimana il 6 aprile 1994, quando il suo jet è esploso in circostanze misteriose, ha coinvolto oltre 800.000 persone principalmente di etnia Tutsi e Hutu moderati.

Beatrice Giunta (WarNews.it)

Adric
09-09-2005, 12:10
Rwanda: arresti ad alto livello per il genocidio del ’94

giovedì, 08 settembre 2005 11:43

Un generale dell’ esercito è stato arrestato per ordine della locale corte rwandese "gacaca" che sta raccogliendo prove sul genocidio del 1994, nel quale morirono circa 800.000 Tutsi e Hutu moderati.

Il General-Maggiore Laurent Munyakazi, che prestò servizio come luogotenente colonnello nell’esercito Hutu di cui era a capo durante il genocidio, racconta la BBC, nega le accuse dei testimoni riguardo il suo coinvolgimento nell’ uccisione di Hutu che si erano rifugiati nella chiesa cattolica durante i massacri. Non ha fatto commenti da quando è stato trattenuto.

Munyakazi, che è stato libero per proseguire nella sua carriera militare, è il secondo militare Hutu di più alto in grado ad essere accusato dalla gacaca; a marzo il Ministro della Difesa del Rwanda Generale Marcel Gatsinzi è stato accusato da una giuria della gacaca di aver preso parte agli omicidi, ma egli, come Munyakazi, nega le accuse.

Domitille Mukantaganzwa, segretaria esecutiva di giurisdizione della gacaca, ha confermato il fermo di Munyakazi per crimini di guerra ed ha detto che apparirà davanti alla Corte Marziale. I crimini da lui commessi lo inseriscono nella "prima categoria" .

Il Presidente della corte Raymond Kaliisa ha detto che il Generale ha minacciato i sopravvissuti che lo hanno accusato e falsificato informazioni durante un’apparizione fatta davanti alla corte in maggio; accusato anche di aver facilitato l’ uccisione da parte delle milizie Hutu di più di 3.000 persone che si erano rifugiate nelle due chiese cattoliche Sainte-Famille e nella cappella di Saint Paul della capitale Kigali, nel distretto di Rugenge, riferisce news24.

Circa 12.000 corti gacaca sono state costituite poichè le corti convenzionali erano sovraccariche di sospettati di genocidio ed incapaci di provare tutte le responsabilità.

I capibanda degli omicidi saranno ancora processati dalle corti convenzionali, sebbene un tribunale dell’ ONU sia stato costituito nel 1994 per provare i massimi ideatori del genocidio.



Continuano i rilasci di sospettati che confessano

Alcuni sospettati che hanno confessato e chiesto perdono sono stati liberati.

Infatti, secondo una notizia riportata dall’ AFP il 22 agosto, sono stati rilasciati 22.407 prigionieri, non corrispondenti ai 36.000 promessi il mese precedente, ha detto il Ministro della Giustizia, aggiungendo di aver controllato ogni singola situazione e che alcune di queste non avevano passato il test. Le confessioni di questi detenuti non corrispondevano alle informazioni raccolte altrove.

E’ stata la terza ondata di rilasci di prigionieri.



Sospettato trasferito all’ Aia

Secondo quanto riportato dall’Irin il 19 agosto un altro sospettato di genocidio, Michel Bagaragaza - che si era arreso la settimana precedente al Tribunale Criminale Internazionale del Rwanda (ICRT) ad Arusha, in Tanzania - era stato trasferito all’ Aia, nei Paesi Bassi, per la detenzione in attesa del processo. L’ ICRT ha detto che il trasferimento di Bagaragaza è stato facilitato dalla cooperazione fra il governo dei Paesi Bassi con il Tribunale.

Durante il genocidio Bagaragaza era Direttore Generale dell’ ufficio che controllava l’ industria di tea rwandese. Secondo quanto si dice, avrebbe istigato ed aiutato i suoi subordinati ed altre persone ad uccidere centinaia di civili Tutsi che avevano trovato rifugio a Kesho Hill vicino ad uno stabilimento di tea a Rubaya e nella cattedrale di Nyundo, ed avrebbe anche ordinato agli impiegati di uno stabilimento di tea di rifornire la milizia Hutu Interahamwe con carburante per le macchine, armi e munizioni prese da una riserva dello stabilimento, ordinando al personale di aiutarli ad uccidere centinaia di Tutsi.




Testimoni di stupri pronti a deporre

Infine, saranno ascoltati dal Tribunale Internazionale del Rwanda (TPIR) 143 testimoni di stupri che deporranno contro tre dirigenti appartenenti al partito filo presidenziale Hutu, secondo quanto riportato dall’ AGE. Si tratta di Mathieu Ngirumpatse, Eduard Karemera e Joseph Nzirorera.

Il TPIR è il primo tribunale internazionale a riconoscere il reato di violenza sessuale come crimine contro l' umanità.

Dal sistema della gacaca ci si aspetta di portare di fronte alla giustizia centinaia di migliaia di persone che ora sono in libertà, spesso accanto a persone delle quali sono accusati aver ucciso i parenti.

Beatrice Giunta (WarNews.it)

Adric
12-09-2005, 19:13
Rwanda: arrestato padre Guy Theunis

Inviato da Ottavio Pirelli
sabato, 10 settembre 2005 17:37 Padre Guy Theunis, missionario della congregazione dei "Padri Bianchi", è stato arrestato martedì mentre transitava per l'aeroporto di Kigali. Pesante l'accusa a suo carico: avrebbe incitato il popolo ruandese al genocidio ripubblicando sul giornale di cui era un tempo direttore articoli del periodico estremista Kangura.

Padre Gérard Chabanon, Superiore Generale dei Missionari d'Africa, ha respinto in maniera netta ogni addebbito a carico di Theunis, sottolineando invece l'impegno instancabile di padre Guy a favore della non violenza.

Secondo le prime informazioni riportate dalla Misna, il procuratore rwandese Emmanuel Rukangira ha accusato il religioso di aver istigato al massacro etnico attraverso le pagine della rivista Dialogue, di cui è stato direttore tra il 1989 e il 1992 e poi dal Belgio dal 1994 al 1995.

Questo addebbito ha permesso di iscrivere padre Theunis nell'apposita lista dei criminali pianificatori del genocidio del 1994, e di deferirlo presso il tribunale Gacaca di Nyarugenge, una delle zone centrali della capitale.

Oltre ai religiosi, che respingono con incredulità ogni accusa, anche il Ministro degli Esteri belga Karel De Gucht, riferisce la Reuters, è intervenuto chiedendo al collega rwandese maggiori delucidazioni sulla vicenda.

(O.P.) (WarNews.it)

Ewigen
14-11-2005, 17:53
RUANDA 14/11/2005 16.04
GENOCIDIO: EX-MINISTRO DELL’INTERNO SI DICHIARA NON COLPEVOLE
Diritti Umani, Brief

L’ex-responsabile del ministero degli Interni all’epoca del genocidio del 1994, Calliste Kalimanzira, si è dichiarato oggi “non colpevole” davanti al Tribunale internazionale per i crimini in Rwanda (Tpir) ad Arusha, in Tanzania, creato dall’Onu per individuare i principali responsabili dei massacri di undici anni fa. “Queste accuse sono bugie” ha detto Kalimanzira, 52 anni, che deve rispondere di tre incriminazioni per genocidio e crimini contro l’umanità. L’ex-ministro si è detto “profondamente rattristato” per le stragi che in meno di tre mesi provocarono tra mezzo milione e 800.000 vittime (937.000 secondo l’attuale governo del presidente Paul Kagame). Kalimanzira si è consegnato volontariamente lo scorso 8 novembre. Nel suo atto d’accusa, si legge: “Intorno al 23 aprile 1994, migliaia di tutsi si radunarono sulla collina Kabuye, nel comune di Ndora. Kalimanzira li incoraggiò personalmente a rifugiarsi lì, garantendo protezione e cibo. Invece di essere protetti, furono attaccati e uccisi dagli hutu, con la piena consapevolezza e in presenza di Kalimanzira”. In queste settimane, intanto, è comparso davanti ai giudici anche l’ex-colonnello Theoneste Bagosora, 64 anni, capo di gabinetto del ministero della Difesa all’epoca dei massacri del 1994 e considerato da molti “l’architetto” del genocidio, il quale ha negato ogni addebito. Dalla sua istituzione nel 1994, il Tribunale internazionale ha finora emesso 22 sentenze. (Misna)

Ewigen
22-11-2005, 20:53
RUANDA 22/11/2005 15.11
GENOCIDIO: GIUDICE FRANCESE A KIGALI PER ACCUSE CONTRO PARIGI

Un magistrato francese, Brigitte Raynaud, è arrivata a Kigali per indagare sulle accuse formulate l’anno scorso contro Parigi dal presidente ruandese Paul Kagame, secondo il quale la Francia avrebbe addestrato e armato le milizie hutu responsabili del genocidio del 1994. Lo ha riferito l’ambasciatore francese in Rwanda, Dominique Decherf, spiegando che in questi giorni Raynaud ascolterà le accuse formulate da sei ruandesi, tutti sopravvissuti allo sterminio, per poi rientrare in patria venerdì prossimo. Spetterà quindi al governo di Parigi decidere se condurre ulteriori indagini ed eventualmente avviare dei processi. Era stato Kagame, durante il decennale del genocidio, a puntare il dito contro la Francia, in risposta a un articolo pubblicato dal quotidiano ‘Le Monde’ che lo incolpava di aver ordinato un attacco missilistico contro l’aereo sul quale il 6 aprile 1994 viaggiava l’allora presidente Juvenal Habyarimana, ucciso a bordo di quel velivolo in circostanze mai chiarite. L’incidente dette indirettamente il via al genocidio in cui vennero massacrati tra mezzo milione e 800.000 civili (937.000 secondo le autorità di Kigali), in gran parte tutsi ma anche molti hutu, a loro volta vittime poi di una vendetta da parte del Fronte patriottico ruandese (Fpr) che prendendo il potere mise fine ufficialmente alla strage.

dantes76
22-11-2005, 20:59
RUANDA, DIECI ANNI DOPO





Nella primavera del 1994 si consumò in Ruanda uno dei più feroci genocidi della storia dell’uomo. Oltre 800 mila persone furono massacrate da bande addestrate e istigate dal regime estremista hutu. Molti erano stati i segnali premonitori di quel che si stava preparando, ma la comunità internazionale non seppe e non volle impedire l’ecatombe. A dieci anni da quei tragici eventi abbiamo preparato un dossier per non dimenticare. E per cercare di capire le ragioni di quella follia.





I GIORNI DELLA FOLLIA

Il ricordo del genocidio, dieci anni dopo



di Raffaele Masto



Il 6 aprile 1994 l’aereo sul quale viaggiava il presidente ruandese Habyarimana assieme al presidente del Burundi Nytaryamira fu abbattuto mentre stava atterrando a Kigali. Fu il segnale che lanciò i partiti estremisti della maggioranza hutu contro la minoranza tutsi all’opposizione e contro gli esponenti dei partiti moderati hutu. Fu l’inizio del genocidio del Ruanda. Riviviamo quei drammatici giorni di dieci anni fa attraverso i ricordi di un giornalista che seguì la tragedia da molto vicino.



L’operazione era preparata da tempo e fu un vero e proprio genocidio: stime attendibili parlano di un numero di morti impressionante, circa 800.000. Si svolse in soli tre mesi e spinse i guerriglieri tutsi, che da tempo si preparavano in territorio ugandese, a rovesciare il regime hutu e insediarsi al potere nel paese. La guerra civile durò poche settimane ma lasciò tra le colline del Ruanda ferite e orrori indelebili. I ricordi che seguono sono tratti dal libro “In Africa” di Raffaele Masto (Sperling & Kupfer Editore 2003).

LE MACERIE DELLA GUERRA

Prima della guerra Kigali era una bella città, arrampicata su verdi colline con lunghi viali fiancheggiati da file di alberi, ampie piazze con cespugli selvatici di fiori variopinti. Nei negozi e al mercato si trovava di tutto, c’erano le banche, i locali notturni, i quartieri residenziali per i bianchi e l’élite locale. Anche le baraccopoli della periferia non esprimevano lo stridente contrasto di molte megalopoli africane.

La guerra cambiò tutto. Alla fine della primavera del 1994 la capitale era distrutta, e ogni angolo riportava i segni di ciò che era avvenuto: muri punteggiati dai colpi dei proiettili, vetri infranti, saracinesche divelte, macerie e masserizie sparse per le strade. La capitale del paese più densamente popolato dell’Africa era quasi deserta. Anche percorrendo le belle strade che, attraversando la nazione da una parte all’altra, si inerpicano tra le colline si aveva la stessa impressione, quella di una terra spopolata: coltivazioni di tè e banane lasciate a se stesse, villaggi abbandonati con le porte delle case spalancate e all’interno i segni del saccheggio.

BAMBINI FERITI

Una delle ferite difficilmente rimarginabili mi sembrò in quei giorni quella delle migliaia di bambini che venivano definiti orfani. Questa parola di solito in Africa non ha senso. Un bimbo che perde i genitori viene allevato senza problemi dagli altri membri della famiglia allargata. Nel caso del Ruanda di allora era invece appropriato definirli così. Si trattava di bambini che avevano perso tutto il loro nucleo famigliare, ed erano traumatizzati al punto che molti di loro avevano perso la parola.

In quel periodo mi trovai di fronte a storie che avevano dell’incredibile, come quella di Alphonse, tredici anni, che tornando a casa vide tutti i membri della sua famiglia uccisi e mutilati. Svenne e fu trovato il giorno dopo dai miliziani tutsi, che proprio in quelle ore avevano preso il controllo della capitale. Inizialmente fu creduto morto, poi qualcuno si accorse che respirava. Da allora Alphonse non riprese più conoscenza: non aveva nessuna lesione organica, eppure era totalmente paralizzato, chiuso nel totale rifiuto di vivere.

«SIAMO MORTI TUTTI»

Un altro ragazzino, Lionel, otto anni, era stato trovato miracolosamente vivo nel campo di fronte alla baracca della sua famiglia. Intorno erano stati contati quattordici cadaveri, tutti suoi parenti: cugini, zii, genitori, fratelli e sorelle. Lui si era salvato cadendo in un fosso.

Era stato trovato sveglio, con gli occhi sbarrati, traumatizzato ma senza un graffio. Più volte interrogato su che cosa avesse visto, aveva raccontato tutto con precisione, descrivendo dettagli e particolari raccapriccianti. Spiegando come i militari hutu avevano sterminato la sua famiglia, terminava sempre dicendo: «…e poi siamo morti tutti».

Non era un errore, un lapsus del momento, ripeteva quella frase a chiunque gli chiedesse di raccontare, non c’era modo di fargli correggere quel plurale che comprendeva anche lui: si considerava davvero morto.

Mentre mi trovavo a Kigali ottenni il permesso di visitare la vecchia scuola francese che era stata trasformata in orfanotrofio. Fu una visita toccante: c’erano trecento bambini che stavano in perfetto silenzio e che mi seguirono con lo sguardo, appoggiati al muro, sdraiati sulle loro stuoie o seduti per terra, per tutto il tempo della mia permanenza. Erano immobili, imbambolati, non giocavano, non frignavano, i loro occhi non mostravano nessuna emozione. Pensai che quei bimbi rappresentavano il futuro del Ruanda.

UN ANNO DOPO

A un anno dalla fine della guerra civile tornai in Ruanda. A quei tempi la ferita era ancora sanguinante. Per le strade, nelle chiese, all’interno delle case si vedevano ancora centinaia di cadaveri, e quando non li si vedeva se ne sentiva l’odore. La gente li rimuoveva quasi senza emozione, anche quando si trattava di parenti stretti. Il sentimento prevalente che mi sembrava di vedere sui volti della popolazione era una calma innaturale, mista a una sorta di folle euforia per la recente vittoria che solo il macabro spettacolo di migliaia di cadaveri mutilati imponeva di reprimere. Poche menti in quei giorni rimanevano lucide.

Al contrario, a un anno di distanza, il dolore era venuto a galla con prepotenza, implacabile, violento. Per contrastarlo, per non esserne sopraffatta, alla gente non rimaneva altro che fare quello che non era stato possibile nei giorni immediatamente successivi al massacro. Era uno spettacolo impressionante: dai villaggi, all’alba, gruppetti di uomini armati di pale, picconi e zappette si inoltravano nella foresta alla ricerca delle fosse comuni in cui i massacratori avevano gettato migliaia di corpi dopo le esecuzioni.

“METTERE AL SICURO”

Sembrava andassero a colpo sicuro: individuavano il luogo dopo indagini sommarie, sulla base di testimonianze di sopravvissuti o frammenti di indizi raccolti qua e là. Raggiungevano un determinato spiazzo e cominciavano a scavare. Ben presto, a pochi centimetri dalla superficie, affioravano i primi scheletri. Gli uomini entravano allora nella fossa a piedi nudi, mentre nell’aria cominciava a diffondersi il fetore caratteristico dei corpi non ancora completamente decomposti. Era un odore insopportabile, pungente e appiccicoso, al quale non riuscivo ad abituarmi. Loro invece rimestavano fino al tramonto nella terra rimossa cercando di ricomporre i cadaveri, di riconoscerli attraverso piccoli indizi, un anello, un certo vestito, i denti mancanti. E facendo commenti sommessi sul modo in cui erano stati uccisi a seconda che trovassero un cranio con un foro dai contorni precisi della pallottola o spezzato da un colpo di machete. I resti di ogni salma venivano infine inseriti in un sacco di tela bianca, portati nella chiesa più vicina, composti in una bara in legno grezzo sulla quale, se possibile, veniva applicata una targa con il presunto nome dell’ucciso. Poi, qualche giorno dopo, veniva celebrato un funerale collettivo.

Scene come questa erano frequentissime nel Ruanda di quei giorni, accadevano in ogni villaggio, in ogni quartiere delle città. Erano talmente frequenti che la lingua ruandese, il kyniaruanda, si è arricchita in quel periodo di un nuovo significativo termine: gushyingura, che è intraducibile ma che letteralmente significa «mettere al sicuro».

LA MALATTIA DEI CUORI FERITI

Davanti a me c’erano gli effetti a distanza di un trauma tremendo, quasi insopportabile dalla psiche umana, aggravato dal fatto che non era nemmeno più placabile con la vendetta, dato che quasi tutti i responsabili del massacro erano ormai fuggiti oltre i confini ruandesi. La popolazione stava vivendo uno psicodramma collettivo che non era possibile rimuovere e che devastava le menti. Anche in questo caso la lingua ruandese aveva forgiato un modo di dire estremamente significativo: imitima yarakomeretse, la «malattia dei cuori feriti».

Tutto ciò appariva ancor più chiaro se si andava a visitare i luoghi nei quali erano stati compiuti i massacri di più vaste proporzioni. Nella parrocchia di Nyamata, per esempio, dove le milizie del vecchio regime avevano stipato la chiesa di donne e bambini, vi avevano lanciato dentro le bombe a mano e poi avevano finito a colpi di machete i superstiti, la popolazione aveva voluto che tutto rimanesse esattamente come era stato trovato dopo il massacro. A un anno di distanza la chiesa era ancora piena di cadaveri ormai scheletriti, ammassati esattamente nel luogo preciso nel quale erano stati uccisi. Intorno all’altare, imbrattato da vaste macchie di sangue rappreso, c’era inoltre una grande quantità di sacchi di svariate dimensioni e colori con all’interno ossa che erano state raccolte nel circondario e che probabilmente erano appartenute a quanti avevano cercato di fuggire al massacro ma erano stati raggiunti dagli assassini. Entrare in quella chiesa era come rivivere la tragedia di un anno prima. Si ripiombava immediatamente nell’atmosfera di cupo terrore che doveva avere avvolto, per chi lo aveva subito, i giorni del genocidio. E se lo era per me che, tutto sommato, avevo vissuto quei momenti con gli occhi distaccati dell’inviato, tanto più lo era per loro. In sostanza quella popolazione si stava comportando in modo del tutto anomalo rispetto ad altri popoli che nella storia hanno subìto un genocidio. Gli ebrei, dopo l’olocausto nazista, non hanno pensato a conservare, visibili, i resti delle centinaia di migliaia di persone uccise. Certo, hanno costruito monumenti, hanno cercato di mantenere vivo, tra di loro e per il resto del mondo, il ricordo di quanto era avvenuto, ma non hanno trasformato le camere a gas in ossari a cielo aperto. In Ruanda c’era qualcosa di diverso, qualcosa di più profondo che allora, come adesso, non riesco a spiegarmi.



L’EQUILIBRIO SPEZZATO

I regni del Ruanda e dell’Urundi, l’attuale Burundi, nacquero intorno al XV secolo. Le loro società erano fondate su una razionale divisione del lavoro: gli hutu, in quanto contadini, avevano il compito di garantire, con la loro attività, il sostentamento dell’intera società, mentre i tutsi, nobili e guerrieri, erano destinati a difendere il regno dalle aggressioni esterne e ad assicurarne la discendenza. In questo modo, sebbene con le contraddizioni interne di qualunque società, passarono secoli di convivenza, il cui equilibrio venne turbato dall’arrivo dei primi coloni, a cominciare da quelli tedeschi, che nel 1890 assunsero il controllo del territorio, che diventò parte dell’Africa Orientale Tedesca fino alla prima guerra mondiale. Successivamente il dominio passò al Belgio, fino al 1961. Ed è proprio questa l’epoca in cui ci furono le prime rivolte e i primi scontri su larga scala tra hutu e tutsi. È evidente che la causa scatenante fu l’avvento di una civiltà vincente, quella occidentale, che cercava di modellare quelle società sui propri criteri e sui propri interessi.

(R.M)



UNA LUNGA STORIA DI SANGUE

Abitato in origine dagli hutu, l’attuale Ruanda è stato meta della prima immigrazione tutsi dopo il 1300. La rivalità delle due etnie, complice la politica coloniale tedesca e belga, ha segnato la storia recente di questo piccolo e martoriato paese.

1959-62 In seguito alla violenze etniche, il re tutsi Kigeri V è costretto, come decine di migliaia di migliaia di tutsi, alla fuga in Uganda. Sotto la guida dell’esponente hutu G. Kaybanda, nel ’62 il Ruanda diventa una repubblica indipendente.

1963-1993 Dopo un’incursione dei ribelli tutsi con base in Burundi, circa 20 mila tutsi vengono uccisi per rappresaglia dalle milizie hutu. Nel ’73 Kaybanda viene deposto da un golpe di J. Habyarimana, di etnia hutu. Per anni proseguono le violenze e i tentativi di trovare un accordo tra le etnie.

1994-1998 Dopo aver avviato tentativi di pace con i rappresentanti dei tutsi, il presidente Habyarimana muore in un attentato. I tutsi, accusati di essere i responsabili della sua morte, vengono massacrati dalle milizie estremiste hutu e dall’esercito: stime ufficiali parlano di 800 mila vittime in 100 giorni.

2000 Il presidente Bizimungu rassegna le dimissioni e il parlamento nomina al suo posto il leader tutsi Paul Kagame

2001 Si insediano i tribunali popolari, i gacaca, per i crimini minori del genocidio. Di indagare sui massacri si occupa anche il Tribunale Internazionale, istituito dall’Onu ad Arusha (Tanzania).

2003 Kagame viene eletto presidente nelle prime elezioni che si tengono in Ruanda dal ’94.





IDENTIKIT DEL RUANDA

Noto come “Paese dalle mille colline” per la sua posizione geografica tra due formazioni montuose, il Ruanda si trova al centro del continente africano. La sua terra è fertile e ben irrigata da fiumi e laghi.

Popolazione: 7.300.000

Superficie: 26.340 kmq

Capitale: Kigali

Lingua: Kinyarwanda, inglese, francese

Religione: cattolici 50%, tradizionali 35%, protestanti 13%, musulmani 2%

Speranza di vita: 41 anni

Figli per donna: 6













IL DOVERE DELLA MEMORIA

Le radici dell’odio, le responsabilità dell’Onu, i fantasmi della storia coloniale:

tutto ciò che non si può e non si deve dimenticare



di Daniele Scaglione



Il genocidio ruandese è stato l’evento più importante della seconda metà del secolo scorso eppure, a distanza di dieci anni, sembra quasi completamente dimenticato. L’ecatombe del 1994 deve essere ricordata, studiata, analizzata, discussa perché contiene un gran numero di lezioni, che se apprese ci aiuterebbero a meglio affrontare il nostro tempo.



I massacri del 1994 non sono il frutto di un’esplosione di follia collettiva, ma la massima espressione di un odio che ha cominciato a manifestarsi molti anni prima. Il Ruanda precoloniale certamente non era un paese dove tutti godevano di pari dignità e opportunità, vi erano divisioni di tipo sociale, di ceto, vi era un sistema monarchico articolato che distribuiva privilegi e ricchezze. Ma nell’esasperata divisione del paese in due gruppi, tutsi e hutu, le potenze coloniali – Germania prima e Belgio poi – hanno grandi responsabilità. Con l’introduzione nel 1932 da parte dei belgi della carta di identità etnica, si giunse a un punto di non ritorno: twa, hutu e tutsi vennero divisi in modo ufficiale, ed è solo a una ristretta èlite tra i terzi che i colonizzatori accordarono privilegi e posti di comando, suscitando un odio crescente negli hutu. I colonizzatori, dopo aver lasciato il paese, assistettero alla presa del potere da parte della maggioranza hutu sino ad allora oppressa, senza cercare di stemperare le tensioni accumulate anche a causa delle loro politiche scellerate. Nel corso degli anni Settanta, quando al potere salì Juvenal Habyarimana, un gran numero di paesi occidentali gli concesse un credito illimitato, in termini politici e più propriamente economici. Gli aiuti esteri giunsero al 22% del prodotto interno lordo, accompagnati da lodi da parte della Banca Mondiale, nonostante che il governo di Habyarimana reprimesse in modo sistematico e duro i dissenzienti.

Armare la guerra civile

Con il passare degli anni il coinvolgimento di alcune potenze straniere si fece sempre più intenso, le responsabilità sempre più gravi. La fondamentale accelerazione verso il genocidio si ebbe nell’ottobre del 1990. Il Fronte Patriottico Ruandese, la formazione politico-militare nata dalle comunità di tutsi fuggiti all’estero dopo la fine del colonialismo, varcò la frontiera con l’Uganda e iniziò la guerra civile. La Francia si schierò dalla parte del governo di Habyarimana, ma ad alimentare il conflitto arrivarono anche armi egiziane, britanniche, italiane, sudafricane, israeliane, zairesi e di altri paesi ancora. Il Rwanda, piccolo paese povero e affamato dalla carestia, divenne il terzo importatore di armi del continente africano. Tra il gennaio 1993 e il marzo 1994, sempre grazie soprattutto a finanziamenti francesi, acquistò dalla Cina 581.000 machete, armi improprie ma decisamente più economiche. Le potenze occidentali e gli organismi internazionali non monitorarono questo commercio, non imposero alcuna moratoria, cosicché nei mercati rwandesi divenne più facile trovare granate che frutta o verdura.

Accordi di carta

Le Nazioni Unite, l’Organizzazione per l’Unità Africana e alcuni governi riuscirono a portare le parti in conflitto – il governo di Habyarimana e il Fronte Patriottico – intorno a un tavolo di trattative, istituito nella città tanzaniana di Arusha. I rispettivi rappresentanti firmarono un articolato trattato di pace, che rimase solo sulla carta. D’altra parte nessuna delle organizzazioni coinvolte né tanto meno le diplomazie di paesi occidentali, si preoccupò di andare a verificare cosa accadeva in concreto. I due contendenti continuarono ad armarsi sino ai denti, in Ruanda le violenze contro i tutsi aumentarono di settimana in settimana. Alcune parti del trattato sembrarono addirittura essere controproducenti, non facendo altro che esasperare le frange più estreme. La stampa sotto il controllo del clan degli Akazu, legato alla moglie del presidente Habyarimana, osteggiò gli accordi in modo duro e nacque un’emittente che divenne tragicamente famosa per il suo incitamento all’odio durante il genocidio: Radio Mille Colline. Nonostante questi sviluppi, la missione di caschi blu inviata in Rwanda per favorire l’implementazione degli accordi, fu particolarmente debole.

Segnali ignorati

A guidare i militari era il generale quarantasettenne Romeo Dallaire. Il compito assegnatoli era mantenere la pace, ma nel ‘paese delle mille colline’ la pace proprio non si vedeva. Il giorno prima che egli arrivasse a destinazione, nel vicino Burundi i tutsi a capo dell’esercito ammazzarono il primo presidente democraticamente eletto nella storia del paese, l’hutu Ndadaye. Ne seguirono scontri in cui persero la vita circa 50.000 persone, in maggioranza hutu. Molti altri scapparono nel Ruanda meridionale. Non era il primo massacro di hutu ad opera dei tutsi burundesi, e neppure è il più grave: nel 1972 ne erano stati massacrati almeno 200.000, a seguito di un presunto tentativo di colpo di stato. Le violenze ad opera dei tutsi militari del Burundi alimentarono sempre più l’odio di molti hutu contro i tutsi rwandesi. Quello che occorreva, Dallaire lo capì in fretta, era il rapido dispiegamento di una forza multinazionale ben preparata, in grado di riportare l’ordine, interrompere il flusso di armi in entrata, tutelare la sicurezza dei civili e dei leader politici. Dal dicembre 1993 all’aprile 1994, Dallaire la chiese più volte, ai suoi capi all’ONU e a chiunque gli venisse sotto tiro. Non ottenne mai ascolto. La sera del 6 aprile 1994, il presidente Habyarimana venne ucciso – ancora oggi non si sa da chi – e la guardia presidenziale, parti dell’esercito e un numero enorme di squadroni della morte, lanciarono la caccia al tutsi secondo un piano ben organizzato. Gli effetti di questo sterminio, secondo le stime più caute, sono di cinquecentomila morti, secondo quelle meno prudenti, di un milione. Dallaire si affannò a chiedere altri cinquemila uomini, convinto che fossero sufficienti per fermare i massacri (ipotesi che nel 1998 fu confermata da un gruppo di esperti militari). Ma la mattina del 7 aprile dieci caschi blu ai suoi ordini vennero uccisi, e il Consiglio di Sicurezza decise di riportare a casa la grande maggioranza dei soldati della missione. Dallaire rimase con circa quattrocento caschi blu, in massima parte volontari ghanesi e tunisini. Salvarono 25.000 persone, ma il genocidio si fermò solo quando il Fronte Patriottico vinse la guerra civile. I soldati del Fronte, ben addestrati e molto disciplinati, non lesinarono rappresaglie, attacchi a postazioni civili come ospedali e chiese. Nel loro operato non si ravvisano le intenzioni genocide degli estremisti hutu, ma i crimini di guerra di cui si sono resi responsabili devono essere condannati con forza.

La rimozione

Le potenze occidentali e più in generale tutti coloro che hanno avuto responsabilità nella scelta di abbandonare il Ruanda a se stesso, hanno successivamente fornito spiegazioni per il loro comportamento. I referenti di Dallaire all’Onu, guidati dal futuro segretario generale Kofi Annan, si sono rammaricati dei loro errori, ma ritengono di aver fatto tutto quanto era in loro potere. Bill Clinton, presidente degli USA che osteggiarono con forza un intervento internazionale per fermare i massacri, ha chiesto scusa affermando che all’epoca ‘non sapeva’ cosa stava accadendo in Ruanda. Il Belgio ha chiesto perdono ma ha scelto di accusare di tutto i propri caschi blu, i cui capi sono anche finiti sotto corte marziale. Ha chiesto scusa anche il Vaticano ed esponenti di altre religioni. In quei mesi si è registrata l’uccisione di 103 preti, 76 suore e 53 frati, ma molti esponenti della gerarchie religiose – cattoliche o anglicane che fossero – erano compromessi con il regime degli estremisti hutu. Gli unici a non chiedere scusa sono governo e parlamento francesi, cioè coloro che hanno sostenuto sino in fondo gli estremisti hutu, anche dopo l’uccisione di Habyarimana. A commento di un’inchiesta compiuta nel 1998, il parlamento di Parigi ammette qualche errore, ma dichiara che “nessuno ha fatto quanto la Francia per fermare le violenze”.

La forza dell’ONU

Sulle mille colline del Ruanda è morta la speranza che, con la fine del bipolarismo tra USA e URSS, l’ONU potesse guidare il mondo verso un futuro di pace. Nei primi anni Novanta le Nazioni Unite si impegnarono in decine di missioni di peacekeeping, la migliore dimostrazione della capacità del Palazzo di Vetro di essere incisivo ed efficace nel prevenire le situazioni di crisi. In Ruanda ogni ottimismo venne sepolto sotto montagne di cadaveri. Fallì il dipartimento per le operazioni di peacekeeping, fallì il segretariato generale, fallì il consiglio di sicurezza. L’assemblea generale e la commissione per i diritti umani stettero a guardare, i rapporti dei funzionari restarono inascoltati. Ma la lezione più sbagliata che si può apprendere dalle vicende del Ruanda è che l’ONU sia un organismo inutile.

Il genocidio del 1994 dimostra esattamente il contrario. L’ONU ha avuto i mezzi per comprendere quello che stava accadendo e sarebbe potuto accadere. Aveva le possibilità di prevenire i massacri, se avesse dato ascolto alle pressanti richieste di Dallaire. Avrebbe potuto interrompere o comunque limitare notevolmente le violenze tra l’aprile e il luglio del 1994, se avesse inviato al generale canadese i rinforzi che chiedeva. Avrebbe potuto affrontare con efficacia la questione dei profughi prima che causasse l’esplosione della ‘guerra mondiale africana’ se avesse deciso di intervenire in tempo e di utilizzare meglio le grandi risorse economiche messe a disposizione per quell’emergenza.

Sul Ruanda l’ONU ha fallito per responsabilità personale di funzionari, dirigenti e responsabili di governo. Sarà inutile parlare di qualsivoglia riforma delle Nazioni Unite sino a quando non si discuterà in modo aperto e trasparente dei comportamenti dei singoli. Il genocidio ruandese è uno degli eventi peggiori della storia dell’umanità. Tra chi l’ha pianificato e attuato, alcuni – pochi – stanno cominciando a pagare. Tra chi poteva intervenire per fermarlo e non l’ha fatto, nessuno ha di che preoccuparsi.

Il Ruanda oggi cerca con grande fatica la stabilità. Alla guida del paese, in posizione molto salda, dopo le trionfanti elezioni elettorali conseguite alla fine dell’estate scorsa, vi è Paul Kagame, il generale tutsi che nel 1994 guidò il Fronte Patriottico alla vittoria della guerra civile. Il suo governo ha ottenuto importanti risultati in ambito economico e sociale, ma è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, di limitazioni alle libertà individuale, è ancora coinvolto – anche se in modo minore rispetto al passato – nella guerra che nella Repubblica Democratica del Congo ha portato alla morte di oltre tre milioni di persone. La situazione della giustizia e le condizioni di vita nelle carceri del paese sono gravissime.

Pace, sviluppo, diritti umani

A quasi dieci anni di distanza, Romeo Dallaire ha finalmente raccontato la sua versione dei fatti in un libro di oltre 500 pagine uscito nell’ottobre del 2003 (Shake Hands With The Devil, Random House). Nella conclusione del suo lavoro, Dallaire scrive di aver rivisto ancora molte altre volte l’odio che ha devastato il Ruanda. Nei miliziani che combattono la guerra in Congo, nella violenza terrorista che è alla base degli attacchi suicidi, a Manhattan come in Israele. Secondo il generale quest’odio deve essere sradicato alla radice e questo può essere fatto in un solo modo: operando contro la povertà, in difesa dei diritti umani, facendo sì – per usare sue parole – che come il Novecento è stato il “secolo dei genocidi”, il Duemila sia il “secolo dell’umanità”.





Istruzioni per un genocidio

Il libro-verità sul Ruanda

Daniele Scaglione, per anni presidente della sezione italiana di Amnesty International, affronta con coraggio alcuni nodi spinosi del massacro ruandese (un “massacro evitabile”, precisa l’autore): il mancato invio dei caschi blu, la disastrosa gestione degli campi per i rifugiati, l’impreparazione e l’inerzia delle diplomazie occidentali, il fallimento del processo di riconciliazione nazionale. Una ricostruzione impietosa della tragedia ruandese, che svela le pesanti responsabilità della comunità internazionale, colpevole di non essere intervenuta per fermare il massacro e, successivamente, di non aver voluto aiutare il Ruanda a superare il trauma del genocidio. di Daniele Scaglione, Ega editore 2003, 256 pp. 12 € www.egalibri.it





LA RICONCILIAZIONE POSSIBILE

di Angelo Ferrari



Félicien Mubiligi è stato vicario episcopale della diocesi di Butare, attualmente ricopre la carica di direttore in un centro di spiritualità a Kigali. Ecco le sue riflessioni sulla situazione ruandese .

Sono passati dieci anni da quel tragico 1994. La società civile in Ruanda sta cercando di uscire dall’incubo del genocidio e dell’odio. Quali sono le prospettive per una riconciliazione nazionale?

Si, in effetti, il Ruanda cerca in tutti i modi di uscire dall’incubo del genocidio e dalle sue conseguenze. Tuttavia l’attività della società civile resta condizionata da tendenze ideologiche legate all’una o all’altra fazione politica, attuale o del vecchio regime. E questo indebolisce la qualità dei suoi interventi. L’attuale governo ruandese prende molte iniziative per affrontare le conseguenze del genocidio. Si potrebbero citare gli sforzi fatti per assistere le vedove e gli orfani. Oppure i tribunali popolari, i “gacaca”, che sono preposti a giudicare i numerosi presunti autori del genocidio, facendo ricorso al metodo tradizionale di metter fine ai conflitti attraverso persone integerrime, elette dalla popolazione stessa… Quando, nella sua domanda, lei parla di “incubo del genocidio e dell’odio” avrei auspicato che venisse fatta una distinzione netta tra le parole “genocidio” e “odio”, dal momento che quest’ultimo è un sentimento, mentre il genocidio è un crimine. In Ruanda siamo diventati sensibili a tutto ciò che potrebbe ridurre il vero senso criminale del genocidio.

Secondo lei, qual è la strada che dovrebbe percorrere il Ruanda per arrivare a una vera riconciliazione?

Per ottenere la riconciliazione, il Ruanda ha già intrapreso molte iniziative che hanno solamente bisogno di essere appoggiate dall’aiuto internazionale. Ma si potrebbe dire che certi settori della vita della popolazione meritano un’attenzione particolare: la lotta contro l’ignoranza e la povertà, lo sviluppo economico del mondo rurale, la battaglia contro l’impunità nella giustizia, la sicurezza dei beni e delle persone. Da qualche anno ci sono in Ruanda due importanti commissioni nel quadro della promozione della riconciliazione nazionale: la Commissione per l’unità e la riconciliazione e la Commissione per i diritti dell’Uomo. Queste organizzano regolarmente dei corsi di formazione ai quali partecipano molti giovani e quadri dell’amministrazione pubblica. Il risultati di questa sensibilizzazione è soddisfacente. Ci si deve augurare un ulteriore sviluppo.

Il mondo occidentale può aiutare il Ruanda a trovare vie credibili di pace e sviluppo? Come?

Sì! Certamente! Oggi l’aiuto dei Paesi occidentali in favore del Ruanda rimane indispensabile. Tuttavia sembra che gli aiuti promessi non siano sempre concessi, talvolta per dei pretesti poco giustificati. Durante i primi sei mesi del 2002, il Ruanda non ha ricevuto alcuno degli aiuti promessi. Quanto alla pace, i ruandesi sono, in generale, troppo delusi dal ruolo giocato dalla comunità internazionale all’epoca del genocidio e negli anni che l’hanno immediatamente seguito. Non hanno apprezzato né il “partito preso” di certi Paesi contro il Ruanda, né l’inefficacia della Nazioni Unite. Ma non è ragionevole restare confinati in questa delusione.

Tratto da: http://www.missionaridafrica.org/archivio_rivista/2004_2_4.htm

dantes76
22-11-2005, 21:01
Si sta svolgendo in questi mesi in Tanzania, nella sede del tribunale internazionale appositamente costituito, uno dei tanti processi per il genocidio del Ruanda degli anni ‘90.



Imputato è Athanase Seromba, ruandese di etnia hutu, prete cattolico. Nessun giornale italiano ne parla, e le notizie che si trovano su internet sono rare e poco frequenti. Ma perché ci interessa?

Padre Seromba partecipò, secondo le accuse formulate a suo tempo, e redatte con cura dal giudice Carla del Ponte in persona, ad una massacro di tusti, così come fece parte del clero cattolico hutu del Ruanda e del Burundi, clero che, attraverso le stazioni radio e le piccole trasmittenti di montagna delle quali disponeva, si fece spesso tramite tra i vari gruppi di ribelli e galvanizzò, con trasmissioni di raro fanatismo, le bande di assassini. Naturalmente, non tutti i religiosi si macchiarono di colpe, anzi, moltissimi furono invece preti, suore e seminaristi che si adoperarono per salvare vite umane, o che furono vittime a loro volta delle immani stragi. Ma Anthanase Seromba non era certo il tipo da martirio.

Nominato come Curato nella parrocchia di Nyange, a Kibungo, accolse con fredda ipocrisia circa 2000 tusti in fuga, e li fece rifugiare all’interno della chiesa. Della quale, però, sprangò porte e finestre. Chiamò quindi le milizie hutu, e consegnò loro il bottino. Su sua stessa “autorizzazione”, la chiesa fu presa a cannonate. Sulle macerie passarono e ripassarono i bulldozer (“non vi preoccupate per la parrocchia! La ricostruiremo!”, raccontano che gridasse). la nuova chiesa cattolica di KibungoI pochi sopravvissuti furono finiti a colpi di machete, e qualcuno pare lo abbia inferto pure lui. Nella puzza di sangue e di fumo, il prete assassino si levò con autorità, e indicando i morti, i pezzi dei morti, ordinò di “levare di torno quella immondizia”. I miliziani eseguirono. Era l’aprile del 1994, e i 2000 morti di Nyange erano solo tra i primi di un totale che si è avvicinato al milione. Sappiamo poi come andarono le cose: i tutsi reagirono, e ripresero il potere. Migliaia di assassini genocidi furono arrestati, e, con tutte le pelosissime ipocrisie e prudenze della comunità internazionale, sopraffatta da montagne di cadaveri e di polemiche, si istituì il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Ma di padre Anthanase Seromba, nessuna traccia. Il prete assassino era scomparso, nessuno, neanche i suoi complici del “Comitato Speciale per la Sicurezza” di Nyange ne sapevano più nulla. A Carla del Ponte, Procuratore Capo per il Tribunale ruandese, non rimase che emettere un mandato di arresto internazionale. E le polizie di tutto il modo lo ricercarono, invano.



Firenze, Italia, 1999: Da un paio d’anni era stato nominato, nella chiesa di S. Martino a Montughi , un nuovo vice-la parrocchia di S. Martino a Montughi, Firenzeparroco. Il fatto che fosse straniero, e africano, fece effettivamente un po’ di scalpore, nel borghese quartiere cittadino, abituato a parroci – come dire – più tradizionali. Ma dopo le prime incertezze, fedeli e abitanti in genere della zona hanno imparato ad apprezzare l’efficienza e la cordialità di don Atanasio Sumba Bura, come dice di chiamarsi. Don Atanasio è arrivato nel 1997, con discrezione e con la benevola presentazione della diocesi fiorentina. Anzi, l’arcivescovado ha raccomandato la massima collaborazione e mobilitazione affinché don Atanasio potesse facilmente integrare nella comunità. Per due anni tutto va benissimo, aggraziate palazzine liberty e pesanti palazzoni anni ’50 avvolgono la vecchia chiesa in una normalissima vita di routine. Ma 1 milione di morti pesano sulla coscienza dell’umanità, e una associazione, African Rights, organizzazione simile a quelle ebraiche che non smisero mai di cercare i gerarchi nazisti, arriva fino a Firenze, fino a Montughi, fino a S. Martino, e, insospettita dal nome troppo simile a quello di un latitante irrintracciabile, scatta foto e prende informazioni, confronta dati e convoca testimoni. E riconosce Anthanase Seromba, lì, a S. Martino, a Montughi, a Firenze.

La notizia è una bomba, ma in Italia non esplode. È solo grazie ad un servizio accuratissimo del britannico Sunday Thimes che il caso fa il giro del mondo. Solo a quel punto (siamo nel novembre 1999) si mobilita la magistratura italiana. Don Anthanase nega, si infuria, convoca giornalisti, e rilascia dichiarazioni fiume, nelle quali accenna a molte cose: alla quasi omonimia; alla sua assenza dal Ruanda ai tempi dei massacri; alla sua ordinazione sacerdotale che sarebbe successiva al 1994, addirittura ad un complotto anglo-americano… insomma, ai cronisti racconta la sua verità. Ad una sola condizione: non scattare fotografie.

Immediatamente, parte la “schermatura” della curia fiorentina. Don “Sumba Bura” viene custodito, difeso, avvolto in un abbraccio protettivo impenetrabile. Arcivescovo, vescovi e parroci esprimono solidarietà e sicurezza di innocenza, e lanciano segnali a magistrati e tribunali: don Atanasio non si tocca. Per intanto, Atanasio viene trasferito in una parrocchia del circondario, a S. Mauro a Signa, sulle colline. Più tranquillità, meno curiosi, probabilmente una parrocchia più plasmabile. Poi, quando le acque si calmano un poco, semplicemente, sparisce. Tutti immaginano che sia fuggito, si sia dato ad una difficile e drammatica latitanza. Ma non è così, in realtà. Passerà tempo, prima che si sappia dove si trova: a 25 metri dalla Cattedrale di Firenze, nella sede arcivescovile, che, essendo cardinalizia, è sotto sovranità vaticana, e quindi, diciamo così, extraterritoriale.

Per essere chiari fino in fondo: Anthanase Seromba, alias Atanasio Sumba Bura è stato nascosto dalle autorità ecclesiastiche in una sorta di impenetrabile ed inespugnabile fortino. Mentre l’interpol e le autorità del Tribunale lo ricercano, mentre i parenti degli uccisi lo reclamano, mentre le lettere ufficiali di African Right arrivano a Sua Eminenza il Cardinale e persino a Sua Santità il Papa, lettere che richiedono collaborazione per la giustizia in una vicenda di genocidio e orrore, la Chiesa fiorentina lo nasconde. Lo accudisce. Ne prepara, in un segreto lungo due anni, la difesa.

Poi, nel 2001, nell’agosto del 2001, ecco un comunicato: ''Don Athanase Seromba non è « fuggito », come hanno scritto alcuni giornali: è tuttora ospite dell'arcidiocesi di Firenze e ribadisce di essere pronto a rispondere di fronte alla legge per tutte le accuse che lo riguardano'', dichiara il portavoce della Curia fiorentina, Riccardo Bigi. Anthanase “non intende affatto sottrarsi a un eventuale processo”, anche se, precisa Bigi, ''A tutt'oggi, non ha ancora ricevuto nessun atto ufficiale di accusa, e non conosce quindi le imputazioni se non attraverso quello che e' stato pubblicato sui giornali''. Il comunicato si chiude con la denuncia della “disinformazione in Ruanda'', e con l’esternazione di “forti sospetti sulla imparzialità di African Rights.”

La Curia Fiorentina si dimentica però di “comunicare” come mai adesso, a due anni di distanza, il vice parroco ruandese risulti essere proprio Anthanase Seromba, e non Atanasio Sumba Bura, e si dimentica pure di dire come il palazzo dell'arcivescovado di Firenze, sede cardinaliziamai gli fossero state affidate due parrocchie sotto falso nome.

Due anni di attesa, due anni di occultamento dietro le finestre sotto le quali passano ogni giorno migliaia di turisti, dalle quali si vede il Battistero romanico e la cupola brunelleschiana. Due anni duranti i quali ONU e altre autorità avevano ricercato ovunque l’accusato. Una vera missione pastorale, questo tirarla per le lunghe. E non senza scopo. Infatti, nel 2001, in Italia succede qualcosa: Berlusconi torna al governo. Cosa c’entra? C’entra. Vediamo il susseguirsi dei fatti.

Il procuratore generale dei tribunali internazionali per i crimini nel Kosovo e in Ruanda è, appunto, Carla del Ponte, la super-giudice svizzera amica di Falcone e essenziale collaboratrice nelle indagini italiane su mafie e corruzione, indagini nelle quali Berlusconi (o qualche suo amico) è inciampato più volte. Il 12 luglio 2001, rimettendo a punto le denuncie e i precedenti mandati di cattura, la Del Ponte emette un ordine di cattura internazionale per genocidio nei confronti di quattro ruandesi : l’ex ministro delle finanze, un musicista, e due preti cattolici. Uno di essi è Anthanase. In tutta europa scatta una operazione coordinata, e i tre latitanti che si trovavano rispettivamente in Belgio, Olanda e Svizzera sono consegnati alle autorità competenti. L’Italia, al contrario, non esegue. Nonostante una risoluzione specifica dell’ONU (la 955 : "Tutti gli Stati devono cooperare pienamente con il Tribunale internazionale… i Paesi membri delle Nazioni Unite sono obbligati a cooperare senza indugi con ogni richiesta di arresto e consegna di qualsiasi persona incriminata dalla Corte.”), il ministero della Giustizia fa sapere che le relative leggi di ratifica non sono mai state approvate, e quindi una simile estradizione non è possibile. Si risponde dunque ad una legittima richiesta con una confessione di inadempienza giuridica. L’ufficio della Procura Speciale comincia ad innervosirsi: "per il Tribunale dell'ex Jugoslavia ci avete messo due giorni ad adeguare la legge" sbotta l’inviato svizzero ad un funzionario del Ministero di via Arenula. Poi gli rammenta: "Guardi che basta un decreto legge, una cosa che si fa in poche ore". L’incredibile risposta è: "Sa, per un decreto ci vuole tempo, occorre vagliare, vedere. L'ex Jugoslavia è alle porte di Roma. Il Ruanda è migliaia di chilometri lontano" (queste frasi sono state riportate, virgolettate, da Diario, ndr).

Carla Del Ponte non regge l’affronto, e chiede un immediato incontro con Berlusconi. Non se ne farà di nulla. E l’Italia viene ufficialmente biasimata alle Nazioni Unite.

Nel frattempo, dall’arcivescovato fiorentino, continuano a partire comunicati, nei quali si ribadisce che Seromba è “ospitato e protetto” in luogo segreto (l’arcivescovado stesso, come si saprà un mese dopo). Le autorità ecclesiastiche e il governo italiano sembrano andare avanti con una perfetta sincronia. L’avversità di Berlusconi nei confronti della Del Ponte e quella di Castelli nei confronti di qualsiasi trattato di estradizione vanno a braccetto con la voglia della curia di frenare, rallentare, nascondere, giustificare.

Intanto, dopo l’11 settembre, governo, chiesa ed istituzioni si sbracciano alla ricerca dell’aggettivo più enfatico da affiancare a “terrorismo” “fanatismo” “estremismo” “guerra” “vite spezzate”... Si proclamano principi su “giustizia” “pace” “democrazia”, nonché “severità” “intransigenza” e “immigrazione clandestina”. Nessuno però collabora con l’ONU per consegnare un sospetto genocida a chi di competenza.

Invece il Vaticano avvia trattative con il Tribunale e con le autorità ruandesi. Ottiene assicurazioni sui seguenti punti: il sacerdote non deve essere trasferito in Ruanda, né incarcerato con altri hutu incriminati nelle prigioni internazionali in Uganda, Burundi e Congo. Non deve essere condannato a morte, e deve avere un trattamento di riguardo.



Ben chiara deve essere una cosa: la trattativa per un eventuale consegna (sempre più inevitabile, viste le crescenti pressioni internazionali) deve essere esclusivamente condotta dalla Santa Sede, mentre lo stato Italiano deve esserne tenuto ufficialmente fuori. Infatti, quando, nell’agosto del 2002, il ministro Castelli risponde ad una interrogazione parlamentare dei DS presentatagli un anno prima, rivela due novità: 1), che l’Italia ha approvato, finalmente, la legge sulla estradizione dei perseguiti dal tribunale internazionale (2 agosto 2002); 2) che Athanase Seromba si è già consegnato al Tribunale stesso, in Tanzania, il 6 febbraio di quell’anno, ovvero prima della approvazione della legge italiana, che ne avrebbe comportato l’arresto, la presa in consegna, il probabile sequestro di documenti e la perquisizione di parrocchie e archivi, nonché l’eventuale incriminazione di complici e fiancheggiatori.

In poche e semplici parole, il Vaticano ha fatto in modo che un suo protetto sfuggisse, se non al processo, alla giurisdizione italiana e alla conseguente giurisdizione internazionale. E l’Italia ha chiaramente permesso la permanenza ed il passaggio di un latitante sul suo territorio (conoscendo le date e gli scopi dei suoi spostamenti) senza approvare una legge obbligatoria se non dopo la sua volontaria partenza.

Uno duplice schiaffo al diritto. Una ulteriore dimostrazione della sudditanza del nostro Paese nei confronti della Santa Sede. Una ulteriore dimostrazione che si condannano i peccati, ma non i peccatori. Una ulteriore differenza tra l’accanimento contro i matrimoni gay e le cellule embrionali, e la morbidezza (storica) verso i criminali di guerra.

Non per nulla, a S. Mauro a Signa, ultima parrocchia del sedicente padre Atanasio, si costituisce un comitato di solidarietà e di sostegno, che, per non farsi mancar nulla, apre pure un sito web. (eccolo) Nello stesso, si può anche soddisfare la curiosità di vedere le rare, rarissime foto del sacerdote.



Vorremmo solo ricordare, in chiusura di questo articolo, che nel 1998 (quattro anni dopo i fatti ruandesi, un anno dopo l’arrivo clandestino di Seromba a Firenze, e quattro anni prima della sua consegna alle autorità tanzaniane), Karol Woitila aveva beatificato Aloysius Stepinac, arcivescovo di Zagabria durante la seconda guerra mondiale, amico, collaboratore e complice del dittatore ustascia Ante Pavelic, detto “il macellaio”, del quale aveva approvato ed appoggiato la strage (100 mila morti) dei serbi ortodossi. Ante Pavelic, alla fine del conflitto, si era rifugiato in Vaticano, da dove aveva ottenuto un lasciapassare per l’Argentina assieme a decine di gerarchi nazisti e comandanti SS. È una chiosa originale, o la conferma che, qualcosa, a Trastevere, non va?


tratto da http://www.democrazialegalita.it/seromba.htm

Adric
22-11-2005, 21:25
Per avere un idea del genocidio in Rwanda del 1994, consiglio la visione del film 'Hotel Rwanda' basato su una storia vera:

http://www.crdp-strasbourg.fr/cinema/rwanda/affiche.jpg

del regista irlandese Terry George che ha riscosso unanime successo di critica e di pubblico, sebbene poco pubblicizzato.

LightIntoDarkness
23-11-2005, 10:15
Per avere un idea del genocidio in Rwanda del 1994, consiglio la visione del film 'Hotel Rwanda' basato su una storia vera:

http://www.crdp-strasbourg.fr/cinema/rwanda/affiche.jpg

del regista irlandese Terry George che ha riscosso unanime successo di critica e di pubblico, sebbene poco pubblicizzato.
Comprato pochi giorni fa, si trova in molte librerie, insieme ad un libro ad un prezzo tra i 15 e i 20€.

Adric
23-11-2005, 17:16
Il DVD in Italia è commercializzato in tre differenti versioni:
- dvd (quella disponibile anche a noleggio)
- dvd (con vari extra) + libro
- doppio dvd (collector's edition), il secondo dvd contiene un documentario di 96 minuti 'Shake Hands with the devil - The journey of Romeo Dallaire' in lingua originale con i sottotitoli in italiano.